Teoria della classe disagiata

Enrico Pitzianti

di Raffaele Alberto Ventura, Minimum fax, 262 pp.,16 euro

Uno dei lasciti più fecondi del pensiero strutturalista è l’idea dell’importanza culturale della “differenza”: percepiamo un elemento solo se si staglia su uno sfondo. Eppure certe applicazioni politiche del principio strutturalista bisogna ammettere di non averle considerate a sufficienza, come il fatto che se tutti hanno la laurea il titolo si inflaziona, smette di essere una caratteristica distintiva, smette di “fare la differenza” – e in qualche modo smette di essere utile.

 

Insomma, non ci avevamo pensato al lato oscuro dell’uguaglianza, ma ciò non ha impedito a questi effetti collaterali di abbattersi su una fetta della popolazione, una “classe” – così la chiama Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della Classe Disagiata, pubblicato da minimum fax. Il disagio è quello di noi iperscolarizzati, di chi si aspettava l’ingresso in un mondo professionale in cui poter mettere a frutto il bagaglio conoscitivo raccolto in due decenni di ligia obbedienza al diktat dell’istruzione, e che invece si trova a fare i conti con un eccessivo affollamento del bus per cui si credeva di aver comprato il biglietto. La soluzione (fasulla) è quella di una corsa disperata a investire in ulteriori titoli di istruzione iperspecialistica, come i master, mentre la soluzione (quella vera) sarebbe scappare a gambe levate da un bus dove anche se si riuscisse a trovar posto, poi si soffocherebbe comunque a causa della calca.

 

La lezione è però consolatoria: democratizzare significa proletarizzare. A voler essere tutti artisti, ci si ritrova una professione artistica sottopagata, e che tenderà a essere, definitivamente, non pagata. Ma visto che Keynes insegna che i limiti in economia non ci sono, si potrà arrivare – e sta succedendo – a dover pagare per lavorare. E’ la cara, vecchia sovraccumulazione dell’economia marxista, quella secondo cui quando all’orizzonte manca la possibilità di un saggio di profitto, si reinveste. Verrebbe da tagliar corto, da dare una strigliata ai sognatori ormai con l’acqua del successo alla gola, ma chi ce lo viene a spiegare che si è studiato per il mero ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro? Chi avrebbe il coraggio di dirci che questi anni passati a leggere e sognare lavori col nome in inglese sono la nostra quota di nobiltà che ci siamo spartiti tra le migliaia di figli e nipoti dei boomers? Volevamo esser tutti nobili, ed eccoci accontentati.

 

Un tempo era il bovarismo a far fantasticare i sognatori, oggi la classe disagiata, però, non sogna di abbandonare il paesino per approdare nei salotti cittadini, il sogno inarrivabile è una classe agiata, un mix di benessere economico e posizionale che non è quello che la storia ha impacchettato per noi trentenni. Ah, fosse solo delusione, per Ventura (che è pessimista quasi volesse aderire alla perfezione all’immagine dell’istruito disilluso) è addirittura una questione di disforia di classe, ci sentiamo ricchi, ma siamo destinati alla povertà.

 

Nel Crepuscolo degli idoli, Nietzsche riportava una domanda che oggi sembra rappresentare bene questo cortocircuito: “Qual è il compito di ogni istruzione superiore?”, “Fare dell’uomo una macchina” si rispondeva il filosofo di Röcken. Niente di più auspicabile se si sta nell’ottica della celebre “liberazione dal lavoro” libertaria: che le macchine lavorino così che noi si possa godere della vita. Ma si è presentato l’inconveniente del reddito, ed eccoci a pensare che forse avevamo fatto male i conti. Forse liberarci dal lavoro non era poi così auspicabile, o magari è successo tutto troppo in fretta, un po’ quello che si diceva della globalizzazione.

 

TEORIA DELLA CLASSE DISAGIATA
Raffaele Alberto Ventura
minimum fax, 262 pp.,16 euro

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