La moda è un mestiere da duri

Simonetta Sciandivasci

Fabiana Giacomotti
Mondadori Electa, 180 pp., 18 euro

Questo non è un libro di moda, scrive Fabiana Giacomotti nella prefazione. Non della moda che ci viene restituita, sempre uguale, nei servizi sbrigativi in coda ai tg, nei trafiletti dei quotidiani, nelle fotogallery delle riviste, che si ostinano a farne una piazza, mentre è circuito; a scinderla dalla cultura, a cui invece dà linfa, essendo provocazione; a sottovalutarne la rilevanza economica, sebbene il settore abbigliamento valga in Italia sessanta miliardi di euro, “ma ci ostiniamo a crederci un paese fondato sull’industria dei beni semidurevoli, che ci sembra più serio”. La moda che Giacomotti racconta, spiega e prende a sberle, col rigore che ha appreso occupandosene per amore e mestiere (su questo giornale ne scrive da anni, mostrandone il caleidoscopio e la rabdomanzia, ma prima, per dirne una, è stata vicedirettore di Amica), è quella spietata, preclusa ai sovrappeso (persino se cronisti), politicamente scorretta, esclusiva, militaresca, sgarbata, bizzosa, assoluta, esagerata e veniale a cui tutti facciamo la morale, essenzialmente perché le siamo indifferenti. “L’uomo assoggettato non può capire la vita elegante”, scrisse Balzac: Giacomotti lo riporta quando argomenta le ragioni, banali e quindi inestirpabili, dello snobismo nei confronti di un settore che solo l’Italia, che gli deve la sua venerata esportazione, si permette di prendere poco sul serio. Così, la nostra accademia non istituisce centri di ricerca o archivi e la politica non rileva la drammaticità della svendita italiana al miglior offerente: negli ultimi anni, ci siamo fatti soffiare Ferrè, Valentino, Bulgari, Brioni. Come siamo attrattivi, ci siamo detti. Cosa che peregrina non è, ma irrilevante sì, almeno ai fini della tutela di un settore che non è solo industria, ma pure storia: “L’aspetto più umiliante è la convinzione che chiunque, purché provvisto di denaro e acume, saprà difendere le nostre radici”. Lo ignoriamo, ma a Pechino – verso cui convogliamo distratte lagnanze incolpando i cinesi di aver distrutto la nostra manifattura – ricorda Giacomotti che frega poco di investire nel tessile, poiché non consente una forte espansione tecnologica: è un’occasione, per l’Italia? Certamente. Ed è stata percepita, ma ha dato l’esito più scorretto: l’enfasi retorica sul sartoriale (“definizione levantina quant’altre mai”), l’ossessione per la bottega artigiana, gli scampoli del lusso su misura che si fanno à la page e che, in verità, non rischiano che essere un fuoco d’artificio per la fine della festa e che hanno un difetto fondamentale: mancano di stilisti. Non c’è moda, né comunicazione della moda senza stilisti. Fuori dall’Italia, il viluppo di disintermediazione, crisi economica e postumi, da un certo punto in poi ha reso la moda accessibile tanto che è bastato essere pop star (Beyoncé), ricche ereditiere (Paris Hilton) o attrici per disegnare la propria linea di abiti.

 

Asservendosi a uno scopo pubblicitario non suo, la moda ha preso a rincorrere il pubblico: un passo che le è innaturale. Figli non degeneri di questa fase, tuttavia, ce ne sono e Giacomotti segnala coraggiosamente i fashion blogger/influencer: ha parole di senso persino per l’odiatissima Chiara Ferragni e riconosce loro di aver almeno portato allegria in un settore che “le vecchie vestali, invariabilmente vestite di nero e sempre, dichiaratamente affette dal male di vivere, hanno perso da anni, se mai l’hanno avuto”. Leggetelo questo libro: vi smutanderà, v’insegnerà molto sul saper vivere e incontrerete persino Kant. In più, Fabiana Giacomotti è la sola ad avere il coraggio di scrivere che l’Alta moda romana è un guazzabuglio insensato da Lungotevere d’estate: catarsi assicurata. E copertina très chic.

 

LA MODA È UN MESTIERE DA DURI
Fabiana Giacomotti
Mondadori Electa, 180 pp., 18 euro

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