Lei ha mai visto Hitler?

Roberto Raja
Walter Kempowski
Sellerio, 228 pp., 16 euro

    Era davvero impressionante. Oggi, non ci si può più immaginare come fosse. Mi arrabbio ancora oggi, quando leggo una qualsiasi cosa contro Hitler. Mi fa arrabbiare, anche se sono perfettamente consapevole che tutto ciò era una follia. Hitler è stato un leader e un’esperienza. Ci faceva battere il cuore più forte”. Impressionante, da batticuore ma, sia pure a posteriori, una follia. Nelle parole di un tedesco medio, all’epoca tredicenne, affiorano così, condensati in un ossimoro, frutto di una dislessia storico-temporale, il ritratto dal basso del dittatore e insieme il profilo di una nazione – singoli uomini e donne, adulti e ragazzini – che lo seguì o che non poté far niente per evitarlo. Si legge in buona parte in questa ambivalenza il libro inchiesta, solo ora tradotto in italiano, a cui Walter Kempowski lavorò tra gli anni Sessanta e i primi Settanta, puntiglioso brogliaccio, con altri due testi, per i sei romanzi della sua “Cronaca tedesca”. Un libro – qualche centinaio di risposte di persone comuni, di ogni condizione, alla semplice domanda del titolo – “dedicato alla persistenza dell’immagine del Führer nella memoria individuale e collettiva dei tedeschi nel secondo dopoguerra”, scrive Raul Calzoni, curatore di questa edizione. Il punto è che “il fenomeno non era Hitler, ma il popolo tedesco”, come ricorda un avvocato che assistette ventiseienne, nel 1934, a un suo comizio a Bonn. E il popolo tedesco comincia a fare realmente i conti con il passato proprio nella stagione in cui Kempowski produce la sua inchiesta: “La banalità del male” di Hannah Arendt – annota ancora Calzoni – è del 1963, “L’istruttoria” di Peter Weiss del ’65. E, per quanto riguarda i fantasmi della Shoah, lo choc collettivo indotto dalla serie tv “Holocaust”, addirittura del ’78. Senza contare poi che si parla comunque di due diversi processi di “denazificazione”, delimitati dal confine tra le due Germanie: uno imposto, a est, dal regime comunista, e l’altro largamente incompiuto, a ovest, affidato soprattutto alla coscienza dei singoli. Dunque, se anche alcuni ricordi potrebbero essersi sincronizzati sul senno di poi, ciò che emerge dal libro è uno straordinario quadro di ambiguità, un cammino negli anfratti del consenso, dell’infatuazione di massa e della grande illusione. Soggetto o oggetto di questo processo, non si è mai una cosa sola. “Dove c’era Hitler – dice il professore universitario, allora trentenne – ho incontrato spesso intellettuali, persone capaci di pensare con la loro testa: uno di loro mi ha detto: ‘Sono andato a sentirlo e mi sono detto: non mi avrà! Una volta arrivato là, non ho potuto fare nulla contro il suo influsso’”. Gli occhi: “Aveva gli occhi molto grandi, di un blu profondo (…). Con i suoi occhi blu scuro guardava la gente e questa era come ipnotizzata”. “Mio padre ha detto: ‘Non è stato gentile? Quei meravigliosi occhi blu?’. A quel punto mia madre ha detto: ‘Non trovo, aveva gli occhi da pesce lesso’”. Gli occhi e la faccia (poco prima dello scoppio della guerra): “Una faccia all’apparenza molle, gonfia, quasi congestionata, gli occhi infossati, del colore dell’acqua”. L’aspetto (intorno al 1934): “Stava in piedi in auto. Era imponente e lo era anche l’intera messinscena”. “Non era attraente, piuttosto ripugnante. Non aveva niente di ciò che ci si aspetterebbe da un padre della patria, oh mio Dio!”. “Era un uomo basso e sembrava truccato. Aveva il fard, sembrava appena uscito da un salone di bellezza”. “Non avevo mai visto un volto tanto insignificante (…). A volte penso che fosse finto”. E c’è pure lo sberleffo, il graffio alla Rabelais: vero, trasfigurato nella memoria o inventato al momento non importa. “Ero vicinissimo a lui e mi sono accorto che aveva scoreggiato. Si sente, no? Gli anni seguenti, mentre diventava di giorno in giorno più famoso, non riuscivo a pensare ad altro. Non metterà il mio nome, vero?”.

     

    LEI HA MAI VISTO HITLER?
    Walter Kempowski
    Sellerio, 228 pp., 16 euro