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L'errore di attaccare Meloni per ciò che era e per i suoi alleati

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Dopo quelle del Pd cominciano a emergere candidature imbarazzanti anche nelle liste blasonate di Azione. Si vede che la madre degli imbecilli è sempre incinta in tutti i partiti. Quanto ad Albino Ruberti, è stato costretto a dimettersi a seguito di una sceneggiata di quelle che a Vittorio Sgarbi assicurano sempre una candidatura.

Giuliano Cazzola


Al direttore - In Italia c’è un clima da anni Trenta e sta per prendere il potere una figlioccia di Mussolini? Non esageriamo, e non facciamo favori a “Yo soy Giorgia”. La verità è che, quando crisi economico-sociale e discredito della classe politica vanno di pari passo, nasce l’invocazione dell’uomo (nel nostro caso, della donna) forte. E i suoi seguaci sono inclini a giustificare qualche “strappo alle regole”, purché serva a difendere il popolo dai nemici interni ed esterni, restituendo al paese ordine, sicurezza, sovranità. “Un uomo forte come Richelieu / ci porterebbe tutti quanti in porto”, è la filastrocca che veniva cantata nelle bettole parigine alla vigilia del colpo di stato del 18 Brumaio (dicembre) 1799. A quel primo modello di stampo napoleonico si sarebbero poi ispirati molti protagonisti dei vari totalitarismi fioriti nel Novecento. Tuttavia, qualsiasi sottile distinzione si voglia fare in materia di totalitarismo, il contrasto con la liberaldemocrazia rimane irriducibile. Ma è un contrasto che da noi non sembra infiammare i cuori di molti elettori. Certo, la storia del nostro regime parlamentare è costellata di “capi” che hanno riscosso l’ammirazione e la devozione dei loro concittadini. Ma il capo è democratico, come ha osservato Giuseppe Galasso (“Liberalismo e democrazia”, 2013), solo se inscrive se stesso e la propria azione nella logica e nelle forme della democrazia, non se inscrive la logica e le forme della democrazia in quelle della propria azione e dei propri fini. In ultima analisi, l’uomo (o la donna) forte è un mito che riflette sempre una condizione di disagio dei ceti popolari. Ad essa si può reagire, parafrasando il titolo di un celebre libro di Albert O. Hirschman (“Lealtà, defezione, protesta”, 1982), denunciandone i rischi o disinteressandosene. C’è però anche una terza possibilità: il “mi adeguo”, per codardia o per convenienza. Esso è la massima espressione di lealtà verso il vincitore di turno, la vera alternativa sia alla defezione che alla protesta. Del resto, dopo i liberali per Salvini sono subito spuntati come funghi i liberali per Meloni. Ma chiunque progetti di conquistare il palazzo del potere è bene che se lo ricordi: per la sua ubicazione sui colli di Roma, notoriamente dal clima temperato, non sarà mai un Palazzo d’Inverno.
Michele Magno

Eppure, caro Magno, su Meloni c’è un tema che andrebbe approfondito e che riguarda una profonda differenza che esiste tra l’ascesa di Meloni e quella di Salvini e di Grillo. E il tema è questo: perché gli avversari di Meloni non riescono ad affondare i colpi contro Meloni? E perché, a parte la solita lagna sul fascismo, gli avversari di  Meloni, per attaccare Meloni, non trovano nulla di meglio da dire se non inchiodarla al suo passato o alle sue amicizie compromettenti, non rendendosi evidentemente conto che attaccarla per ciò che era (e che quindi oggi non è) e per gli alleati con cui si accompagna (e che sono dunque altro rispetto a lei) significa dire che il problema di Meloni non è ciò che rappresenta oggi? Eppure, caro Magno, le battaglie da combattere ci sarebbero, ma sono battaglie difficili, poco twittabili, complicate da far capire. E dunque, al fondo, il tema resta quello: gli italiani che votano Meloni sono pronti a farlo non perché sono alla ricerca di una fascista ma perché sono alla ricerca di una novità. Il resto mi pare fuffa.

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