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Lettere

Il cattivo pacifismo che spaccia la resa come una forma di pace

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ha detto giustamente ieri Paolo Mieli: “I russi non sfondano sul terreno in Ucraina, ma stanno vincendo alla grande in Italia”.
Luca Martoni
 

Per fortuna c’è Enrico Letta. Giustamente definito dai suoi compagni di partito, affettuosamente, baio-letta.


 

Al direttore - Il verbo della non-violenza di Gandhi, a cui si richiamano in diversa misura i pacifisti senza se e senza ma, ha ricevuto nel corso del tempo interpretazioni disparate. Per fare qualche nome, fu accolto con entusiasmo da Romain Rolland, Aldo Capitini e Giorgio La Pira. La sua dottrina fu invece bollata come utopica da Jean-Paul Sartre e Franz Fanon, e perfino come reazionaria da Herbert Marcuse e Malcolm X. Ma di quale non-violenza stiamo parlando? La domanda è cruciale. Il Mahatma ha sempre distinto la non-violenza come convinzione (“non-violence as a creed”) dalla non-violenza come scelta tattica (“non-violence as a policy”). La prima è quella del forte (o “satyagraha”), che si basa sul rifiuto morale della violenza e che richiede audacia, abnegazione, disciplina e una fede profonda nella bontà della propria causa. La seconda è quella del debole (o resistenza passiva), a cui ricorre chi non si sente abbastanza risoluto da impugnare le armi. Quest’ultima, a sua volta, non va confusa con la non-violenza del codardo, frutto di pura vigliaccheria o di meschini interessi egoistici. Nonostante – scrive nella sua “Autobiografia” – “la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione” (Ali Ribelli Edizioni, 2019). In tal senso, la posizione di Gandhi, come ben sapeva il Marco Pannella che pure assunse come simbolo dei radicali italiani la sua effigie, non può essere identificata con il pacifismo assoluto di Lev Tolstoj. Né essa può essere identificata con talune varianti del pacifismo occidentale, come l’obiezione di coscienza al servizio militare e il rifiuto di uccidere i propri simili, come aveva osservato già nel 1957 il sociologo americano Irving L. Horowitz (“The Idea of Peace and War in Contemporany Philosophy”). Chiedo venia per la pignoleria, ma forse è necessaria almeno per limitare l’uso ad mentula canis del nome di Gandhi.
Michele Magno

Su questo tema, vale la pena riportare un passaggio di una formidabile intervista fatta il 20 febbraio del 1991 a Marco Pannella da Paolo Franchi sul Corriere della Sera, già evocata giorni fa sulle nostre pagine da Salvatore Merlo. “Pannella, come mai, anche nei suoi discorsi in congresso, tanta polemica contro il pacifismo?”. Pannella: “Perché i giovani sappiano, i vecchi ricordino e si cessi di ingannarli: il pacifismo in questo secolo ha prodotto effetti catastrofici, convergenti con quelli del nazismo e del comunismo. Se il comunismo e il nazismo sono messi al bando, il pacifismo merita di accompagnarli”. Domanda di Franchi: “E il disarmismo, l’antimilitarismo, la non violenza”. “Non sono omologabili al pacifismo. La linea che da Gandhi a Bertrand Russell, da Luther King a Capitini, deve organizzarsi finalmente nel mondo. Il Partito radicale questo progetta e comincia ad attuare, in Italia e nel mondo. E’ impresa ragionevole. Lasciarsi sconfiggere è la follia”. Mettere al bando il pacifismo che spaccia la resa come una forma di pace. Niente male, no?

 



Al direttore - E’ mai possibile che qualsiasi iniziativa che tocca l’assetto azionario in quella che un tempo era la “galassia” del Nord – Generali, Mediobanca e addentellati – susciti ansia e induca a scrivere, nelle cronache, di attacchi, se non di tentativi di egemonizzazione dall’estero? Si è da poco conclusa la vicenda “elettorale” delle Generali nella quale, neppure a farlo apposta, i fondi esteri sono stati particolarmente importanti per il successo della lista del consiglio di amministrazione – dopo che da diverse parti, sostenitrici o quasi di tale lista, si era prospettato “Hannibal ante portas” proveniente proprio dall’estero – e già si levano per ora timide preoccupazioni perché Caltagirone ha aumentato la sua partecipazione in Mediobanca da circa il 3 a circa il 5 per cento. Una partecipazione che, messa insieme con quella  della Delfin di Del Vecchio, con la quale non esiste però alcun patto di qualsiasi genere, porta l’interessenza complessiva a quasi il 25 per cento, al livello dell’Opa obbligatoria. Insomma, sembra quasi che si commetta un delitto di lesa maestà e non lo svolgimento di un’operazione di mercato nei confronti di un Istituto che non è più quello dell’epoca di Enrico Cuccia e  di ciò deve  compiutamente rendersi conto. E’ la conseguenza, l’aumento della predetta quota, di quanto è accaduto nelle Generali di cui Mediobanca è il primo azionista e ha rafforzato, per il voto della lista del consiglio, la propria posizione con un molto discusso prestito-titoli? Ciò viene negato seccamente dal gruppo Caltagirone che fa riferimento a precedenti progetti di diversificazione. Ma anche se  la cosa fosse o fosse stata vera perché dovrebbe fare quasi scandalo? Impatta sulla sana e prudente gestione e sulla stabilità, i canoni fondamentali per l’esercizio del credito? Non sembra affatto. Tocca la tutela del risparmio? Non credo proprio. E allora? Non  sarà che, come quei nobili proprietari latifondisti nel Mezzogiorno, si vive in un’epoca credendo di vivere in un’altra? Con i migliori saluti. 
Angelo De Mattia

Errata corrige. Per errore ieri abbiamo definito Bernardo Mattarella, attuale amministratore delegato di Banca del Mezzogiorno/MedioCredito centrale, figlio del presidente della Repubblica. Il figlio di Sergio Mattarella si chiama Bernardo Giorgio Mattarella. Bernardo è il nipote. Ce ne scusiamo con l’interessato.