Ieri con Putin, oggi chiedono all'Europa di fare di più. Spettacolo

Le lettere al direttore del 19 marzo 2022

Al direttore - Giustamente si afferma, in un intervento sul Foglio, l’esigenza di una prova di pragmatismo, da parte dell’Europa, nell’affrontare il problema delle “rinnovabili”. Si può aggiungere che di pragmatismo l’Unione dovrebbe dar prova anche in altri importanti settori, a cominciare da quello bancario e dal solo parzialmente e inadeguatamente attuato progetto di Unione bancaria. Domina ancora la posizione dei tedeschi e dei “frugali” contrari alla messa in comune dei rischi o, meglio, che chiedono che, prima di tale collettivizzazione, i rischi siano ridotti drasticamente e siano poi previsti cogenti limiti all’investimento in titoli pubblici. Un rimedio peggiore del male. Intanto resta una confusione di norme e di indirizzi, nonché di soggetti che li emanano. Ma quello descritto è solo un esempio. Naturalmente esiste un ordine di priorità. La Conferenza sul futuro dell’Europa riuscirà a incidere in qualche modo? 
Angelo De Mattia

 

Debito comune. Politica energetica comune. Politica sanitaria comune. Aumento comune delle spese per la difesa. Non dovrebbero servire le crisi per forgiare l’Europa, ma nelle crisi l’Europa si sta forgiando. E vedere gli utili idioti del putinismo, che hanno tentato di aiutare Putin a distruggere l’Europa, impegnati a chiedere all’Europa di fare di più non ha prezzo. 


 
Al direttore - Secondo Roland Barthes (che lo ha coniato), il termine “neneismo” consiste nello stabilire due contrari e nel soppesarli l’uno con l’altro in modo da rifiutarli ambedue: non voglio né questo né quello. Si tratta di un procedimento magico, precisa il principe dei semiologi francese, attraverso cui si equipara quanto è imbarazzante scegliere per liberarsi di una realtà che non corrisponde ai propri pregiudizi. Dal “né con lo stato né con le Br” di ieri al “né con la Nato né con Putin” di oggi, la nostra storia più recente è piena di neneisti. Pallide controfigure del Romain Rolland autore, poco dopo l’inizio della Grande guerra, di “Au-dessus de la mêlée” (“Al di sopra della mischia”), non hanno il coraggio di assumersi la prima responsabilità che Norberto Bobbio imputava agli intellettuali: quello di impedire che il monopolio della forza – sto parlando ovviamente dell’autocrate russo – divenga anche il monopolio della verità. Al contrario, i Canfora, Di Cesare e Rovelli de noantri predicano il “né di qua né di là”, ritengono che il loro compito sia quello di non sporcarsi le mani, di guardare con aristocratico disdegno i cani che si azzuffano; e magari di continuare a speculare, pronosticando sventure, sull’esito della “operazione militare speciale”. Sono quegli studiosi che, professandosi neutrali, credono “di galleggiare sui flutti – diceva Bobbio – come i signori della tempesta, e sono respinti, senza che se ne accorgano, in un’isola disabitata”. Nel tempo presente, dove sono in gioco i valori sommi della democrazia liberale, non c’è spazio per posizioni terziste (alias anti occidentali). Bisogna scegliere da che parte stare: o di qua o di là. Per riprendere una metafora cara a Julien Benda, tra Michelangelo che rinfaccia a Leonardo la sua indifferenza alle sventure di Firenze, e Leonardo che risponde che lo studio della bellezza occupa tutto il suo cuore, i sedicenti partigiani della pace non dovrebbero avere dubbi a schierarsi con lo scultore della Pietà. C’è un verso del “Bellum Civile” del poeta latino Lucano che recita: “Victrix causa deis placuit / Sed victa Catoni”. Il suo senso è: la causa di Cesare vinse perché appoggiata dagli dei, mentre Catone l’Uticense perse per aver sposato la causa della libertà repubblicana. Significa che i vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma il vinto di oggi non può essere il vincitore di domani?
Michele Magno