Lettere

Euro, Bilderberg, 11/9: il cialtro-complottismo è sempre lo stesso

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Vanno a ruba le copie del libro di Massimo Citro “Eresia. Riflessioni politicamente scorrette sulla pandemia di Covid-19”, dove l’autore svela con argomenti inoppugnabili “di che lacrime grondi e di che sangue” la grande congiura del secolo. Certo, il saggio non è paragonabile ai capolavori di questo genere letterario, come “I Protocolli dei Savi di Sion” e “Mein Kampf”; ma Citro è sulla buona strada.
Giuliano Cazzola

Il meccanismo del complottismo è sempre lo stesso ed è quello che descriviamo da mesi: costruire nemici invisibili, intenzionati inesorabilmente a voler limitare la nostra libertà, presentarsi come gli unici in grado di vedere ciò che gli altri non possono vedere e scegliere di volta in volta dei simboli utili a mantenere vivo il fuoco del complottismo. Vale per la pandemia ma vale per tutto il resto. E non si fa fatica a immaginare che i lettori che credono alle dottrine del dottor Citro siano gli stessi che credono alle menzogne sull’euro, alle leggende sul Bilderberg e alle fandonie sull’11 settembre. E’ il cialtro-complottismo, bellezza.

 

Al direttore - Nel suo bell’articolo pubblicato sul Foglio di martedì, Marcello Pera mostra di pensarla come Piero Calamandrei. Anche lui, da buon professore, ritiene che le leggi abbiano una loro funzione pedagogica. Perfino quando sono disattese. Fatto sta che il procedimento previsto dall’articolo 138 della nostra Carta ci ha dato nel 2001 i frutti avvelenati della squinternata riforma dei rapporti tra stato e regioni. Una riforma che ci ha dato il meglio del peggio in occasione della pandemia. Anche grazie, siamo giusti, a una cervellotica interpretazione dell’articolo 117 della Costituzione. E tre commissioni bicamerali hanno fatto tre buchi nell’acqua. A questo punto, capa tosta, l’ex presidente del Senato non si arrende. E ripropone un’assemblea costituente di 75 componenti, lo stesso numero della commissione per la Costituzione presieduta da Meuccio Ruini. Ora, tutto è a posto e nulla in ordine.  Però dobbiamo fare i conti con la circostanza che da noi le riforme istituzionali si realizzano in via di fatto. Fin dai tempi dello Statuto albertino. A dispetto della Carta, ben presto la forma di governo costituzionale puro (“Il Re nomina e revoca i suoi ministri”) è soppiantata da quella parlamentare. Si afferma innanzitutto in via di fatto – ex facto oritur ius – la figura del presidente del Consiglio e il Consiglio dei ministri. La bandiera sabauda è sostituita all’istante dal Tricolore, sventolato dalla terrazza della Reggia da Carlo Alberto alla presenza dei delegati lombardi alla vigilia della prima guerra d’indipendenza. Per la gioia dei torinesi. E la nostra Repubblica non è da meno. A dispetto della proporzionale, durante la prima legislatura siamo approdati sulle rive del Tamigi. Con Alcide De Gasperi, leader del partito di maggioranza relativa e presidente del Consiglio, abbiamo avuto un sostanziale bipolarismo di marca similbritannica: di qua la maggioranza centrista, di là l’opposizione – senza trattino – socialcomunista. Grazie al genio di Marco Pannella i referendum abrogativi si sono trasformati come per incanto in referendum creativi di diritto. E il bipolarismo affermatosi nel 1994 è sì una conseguenza del cosiddetto Mattarellum, per tre quarti maggioritario all’inglese e per il restante quarto proporzionale. Ma se Silvio Berlusconi non fosse sceso in campo, avremmo avuto una sorta di monopartitismo postcomunista a guida Occhetto chissà per quanti anni. E veniamo ai giorni nostri. Il giuoco di società è dove andrà Zazà. L’interrogativo è se Mario Draghi resterà a Palazzo Chigi nel prossimo febbraio o si trasferirà armi e bagagli al Quirinale. Se Sergio Mattarella verrà riconfermato suo malgrado, continueremo ad avere un esecutivo bicefalo. Una sostanziale diarchia. Un parlamentarismo con correttivo presidenziale, come osserva con ragione Stefano Ceccanti. Se invece dopo tante fumate nere avremo per disperazione un compromesso al ribasso tra destra e sinistra, spunterà dagli alambicchi parlamentari un presidente della Repubblica di basso profilo. Con il risultato che l’inquilino di Palazzo Chigi ci darà un premierato all’inglese e l’inquilino del Colle reciterà la parte della regina Elisabetta. Ma può ben darsi che Draghi salga al Quirinale. In tal caso entreremo dritti dritti, senza cambiare una virgola della nostra Costituzione, nella Quinta Repubblica francese. Non a caso De Gaulle sosteneva che il potere non si prende. No, si raccatta. Ciò nondimeno, Marcello Pera aspetta e spera. Perché, come sosteneva Indro Montanelli, nel  Belpaese può sempre capitare di tutto. Ma, aggiungeva scettico, anche niente. Purtroppo.
Paolo Armaroli