Una Netflix della cultura italiana? C'è già la Rai, ma le manca ancora una cosa

Le lettere del 7 aprile al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Quindi si può fare un film sulle prefazioni dei magistrati?
Giuseppe De Filippi



Al direttore - Negli anni Cinquanta, il “dilemma del prigioniero” messo a punto dal matematico Albert Tucker obbligò la politica e l’economia a fare i conti col principio di razionalità. Due persone vengono arrestate per il medesimo reato; reclusi in celle separate, a ciascuno di loro sono prospettate le seguenti possibilità: se solo uno dei due collabora, evita la pena e l’altro sconta sette anni di carcere; se entrambi si accusano, scontano sei anni di carcere ciascuno; se nessuno dei due cerca di salvarsi a scapito dell’altro, dopo appena un anno verranno rilasciati entrambi. Non potendo parlarsi, e perciò ignorando le rispettive intenzioni, la scelta più razionale è quella di resistere alla tentazione di massimizzare il proprio vantaggio a scapito dell’altro e attendere pazientemente che l’anno di reclusione si concluda. Ci sono situazioni in cui nessuno si salva da solo. Il governo Draghi, ad esempio. Un governo nato per salvare l’Italia, sottraendola alla duplice morsa pandemica e recessiva. Una missione letteralmente vitale. Bisognerebbe, dunque, accantonare l’interesse di bottega a vantaggio dell’interesse nazionale, ripiegare i vessilli di partito a vantaggio del Tricolore. Non tutti i “prigionieri”, però, l’hanno capito. Fioccano infatti i distinguo, le provocazioni identitarie, le drammatizzazioni fini a sé stesse. Ha cominciato Enrico Letta, agitando davanti agli occhi di Lega e Forza Italia il drappo rosso dello ius soli. E’ pensabile che una maggioranza così eterogenea faccia quella riforma della cittadinanza che non riuscì al solo centrosinistra? Certo che no. Sarebbe come pensare vi siano le condizioni per varare quella riforma radicale della Giustizia che non riuscì al solo centrodestra. Magari, ma non è questo il momento. E’ evidente. Così come è evidente che non saranno le minacce di alcuni miei amici di partito a impedire alla ministra Dadone di liberalizzare le droghe leggere. Non ci proverà neanche, è ovvio. Come ovvio è anche il fatto che l’approccio di lotta e di governo del buon Matteo Salvini serve solo a sfregiare l’immagine dell’esecutivo di cui pure la Lega fa parte e a fare di Draghi il premier delle sinistre. Conviene? Direi di no. I panni sporchi ci sono, ma lavarli in famiglia sarebbe meglio. E meglio ancora sarebbe evitare di schizzare di fango il lenzuolo appena stirato del governo. Siamo tutti nella stessa prigione, ne usciremo insieme tra poco più di un anno o non ne usciremo affatto.
Andrea Cangini, 
senatore di Forza Italia



Al direttore - Abbiamo apprezzato il dibattito da lei avviato in Italia sul ruolo di Netflix nella costruzione della cultura europea. Se questo, almeno in parte, corrisponde a verità, il rischio di scivolare dall’unità all’uniformità, sotto i dettami del politicamente corretto, è enorme. Il giudizio sulla ridicola operazione della “Netflix della cultura” in Italia, smentita dagli stessi protagonisti, ci vede, invece, concordi. Il modello aziendale di Chili Tv, il pay-per-view, è superato e, nonostante il numero di utenti, quasi 4 milioni, la capacità di ascolto è infinitesimale rispetto a Netflix e RaiPlay. Su questo, direttore, mi permetta un inciso: in commissione di Vigilanza Rai grazie a Fratelli d’Italia è stata bocciata la risoluzione che imponeva l’ingresso della Rai in Itsart. Crediamo, invece, che la Rai debba, sul modello Bbc, gratuito e con contenuti di altissimo livello, concorrere direttamente con le piattaforme digitali, veicolando anche la cultura nazionale, che è europea per sua stessa natura. Passerebbe dai 6 milioni di utenti attuali a un potenziale di almeno il triplo. Direttore, non pensa anche lei che la Rai debba essere la nostra “Netflix della cultura”, come già decise il Parlamento e far diventare la cultura italiana il simbolo di una cultura europea che si unisce nelle differenze?
Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e componente  della commissione di Vigilanza Rai

 

Due spunti. Primo: in attesa di fare la Netflix della cultura italiana, ci pensano altri produttori di contenuti a fare quello che la Rai non riesce a fare. “SanPa” l’ha fatto Netflix, non la Rai. La serie tv su Totti l’ha fatta Sky, non la Rai. E l’idea di mettere dieci comici geniali dentro una stanza per sei ore l’ha avuta Amazon, non la Rai. Per il resto se l’idea della Netflix della cultura italiana è quella di creare insieme con Cassa depositi e prestiti, come detto da Dario Franceschini, “una piattaforma digitale pubblica, a pagamento, la quale possa offrire a tutta Italia e tutto il mondo l’offerta culturale del nostro paese”, lei ha ragione: per quello c’è la Rai. Ma per farlo alla Rai servirebbe utilizzare la prossima tornata di nomine per piazzare in cda dei professionisti che conoscono la televisione, non gli scarti della politica. Che ne dice, ci sta?

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