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Calenda e l'anticalendismo. Il caso di Voltaire e il caos della chiesa

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 23 ottobre 2020

    Al direttore - Divisivo, sconsiderato, voltagabbana, fumantino, spavaldo, permaloso, prepotente, superbo, radical chic: l’elenco degli epiteti poco lusinghieri sul conto di Carlo Calenda è ormai lungo come una quaresima. Roma val bene una messa, e il clero di largo del Nazareno non vede di buon occhio che a officiarla sia un laico, che peraltro – summa nequitia – si definisce un liberale di sinistra. Autocandidandosi a sindaco della Capitale, forse il leader di Azione è stato imprudente, in quanto senza il sostegno del Pd non può andare da nessuna parte. Forse il suo è stato un rischio calcolato, che scommette sulla palude di un partito incapace di proporre nomi parimenti competitivi. Non saprei dire. Tuttavia, consenta a un suo virtuale elettore un consiglio non richiesto: fossi in lui, starei in guardia e abbasserei i toni. Perché tra i democratici non sono pochi gli adepti di un nuovo culto: quello della mancanza di personalità. 
    P. S. Non ho ancora capito se anche per David Sassoli e Enrico Letta l’offerta di correre per il Campidoglio era vincolata al superamento della prova delle primarie.

    Michele Magno

     
    Su Calenda e in particolare sull’anticalendismo quoto il nostro Guido Vitiello: “L’anticalendismo è uno spin-off dell’antirenzismo, con tutto quel che di solito ne consegue: più noioso dell’originale, pretestuoso, tirato via, con attori mediocri, una sceneggiatura derivativa e piena di cliché, il tutto per un pubblico di affezionati un po’ fanatici”.

     


     
    Al direttore - Nell’evidente tentativo di smorzarne l’impatto, in alcuni casi facendola passare quasi come una non notizia, la gran parte dei commenti all’endorsement papale alle unioni civili tra persone samesex ha inteso rassicurare che no, la dottrina non cambia, il magistero resta quello di sempre; che cioè un conto è la famiglia, quale unione tra un uomo e una donna, altro conto è tutto ciò che non può dirsi famiglia. Insomma niente di nuovo sotto il sole, se non una ulteriore conferma del fatto che ora l’accento, per così dire, è rivolto più all’ascolto delle esigenze concrete delle persone, alla loro accoglienza e al dialogo. Ma ragionare in questi termini significa puntare al dito per non vedere la luna. Perché qui a essere in gioco non è la dottrina sul matrimonio (non solo almeno), ma principalmente la dottrina sull’omosessualità. E allora si fa fatica a credere che il magistero della chiesa non sia, nei fatti, cambiato nel momento in cui il Pontefice si dice favorevole a che due persone samesex vivano stabilmente insieme, posto che – immaginiamo – tale convivenza comporta una unione non soltanto spirituale ma anche fisica, carnale. O ci siamo persi qualcosa? Non a caso Vito Mancuso, teologo insospettabile di qualsivoglia rigidità dottrinale o tacciabile di “tradizionalismo”, ieri su Repubblica metteva in relazione quanto detto dal Papa proprio con il paragrafo n. 2357 del Catechismo – che definisce gli atti omosessuali come “intrinsecamente disordinati”, e “contrari alla legge naturale” e che “in nessun caso possono essere approvati” – per sottolineare come alla luce di questo testo penso sia chiara la novità esplosiva delle parole di Francesco secondo cui le persone omosessuali “hanno diritto a una famiglia”. Infatti, tutto chiaro. Resta da capire invece se sia stato puramente casuale che le parole del Pontefice, che era facile immaginare avrebbero avuto un’eco planetaria pur se contenute in un documentario (e come tali non vincolanti per i fedeli, laici e no), siano uscite nel bel mezzo degli scandali vaticani legati all’affaire Becciu e con il sinodo tedesco – le cui conclusioni com’è noto potrebbero riservare brutte sorprese per Roma – in dirittura d’arrivo. Ma quand’anche le frasi del Pontefice siano state utilizzate come mezzo di distrazione di massa e/o a mo’ di ramoscello d’ulivo nei confronti di una chiesa tedesca in forte fibrillazione, è tutto da dimostrare che la toppa non sia peggiore del buco (tanto più che i destini del cattolicesimo in Europa non sembrano essere in cima all’agenda dell’attuale pontificato). E senza dimenticare le potenziali ricadute ad esempio nel rapporto con le altre religioni, in primis l’islam che ha una visione, come dire, piuttosto “rigida” su omosessualità e dintorni. Visione che anche di recente è stata ribadita dal grande imam di Al Azhar, Ahmed Al Tayyeb (sì proprio lui, quello che firmò con Francesco il documento di Abu Dhabi) che in un’intervista sulla Lettura del 1° marzo scorso ha detto senza mezzi termini: “L’islam è contro chi mina i valori etici. Se la legge dell’uomo permette l’omosessualità, questo non è accettabile per l’islam”. In una fase già di suo turbolenta e problematica della vita della chiesa (per tacere del contesto esterno) di tutto i fedeli hanno bisogno tranne che di ulteriore confusione.
    Luca Del Pozzo

     
    Le rispondo facendo mio un famoso aforisma di Voltaire, che si adatta bene al momento di caos della chiesa: “Ciò che chiamiamo caso non è e non può essere altro che la causa ignota di un effetto noto”.  

     


     
    Al direttore - Sacrosanto l’articolo uscito sul suo giornale dal titolo “Poveri  convegni, trattati come se fossero pericolose adunate alcoliche” di Giovanni Maddalena. La questione è passata nel silenzio e nell’indifferenza generale. Eppure eliminare i convegni vuol dire colpire alla radice quello che è un elemento essenziale nel dibattito politico e culturale. Certamente, il dibattito nei convegni è oggi una esercitazione del tutto eccentrica rispetto al modo con cui attualmente ci si confronta: in genere nei convegni si ragiona e si parla a bassa voce, non ci si insulta, non si bercia, non si esibisce il rosario e la croce benedetta, tantomeno si fanno selfie con tanto di bacio al pupo. Certamente, visti i tempi in cui viviamo, così ben descritti nel Foglio di ieri, 22 ottobre, anche i convegni devono essere sottoposti a regole molto rigorose che vanno appunto dall’uso delle mascherine, al distanziamento e anche alla fissazione di un limite precostituito di presenti. Non si capisce perché, a parte il Festival del Cinema, appunto i cinema con relative regole rimangano aperti e invece i convegni con le stesse modalità vengano chiusi. Non nascondo che in quello che le scrivo c’è un conflitto di interessi: l’associazione Riformismo e Libertà alla quale appartengo fonda larga parte della sua attività proprio sui convegni e ne ha dovuto annullare uno che si sarebbe dovuto svolgere giovedì 22 col titolo molto compassato e poco eccitante “Crisi del sistema politico. Pandemia e recessione”. Le scrivo non sulla base di una posizione relativista, aperturista, opportunista alla Salvini perché condivido interamente la posizione espressa sul suo giornale secondo la quale può piacere o non piacere, ma di fronte a una straripante pandemia l’unica strada è quella proposta dalla Merkel che pure ha alle spalle un sistema sanitario ben altrimenti attrezzato rispetto a  quello italiano.
    Fabrizio Cicchitto