Prevenire un dibattito: lasciate stare l'obelisco del Foro Italico

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Futuri finanziamenti solo da regimi che si finanziano con rinnovabili.

Giuseppe De Filippi


Al direttore - Abbiamo ricominciato col derby Pasolini-Montanelli, bentornata serie A.

Valentina Cofini


 

Al direttore - L’intervista di Salvatore Merlo ad Aldo Tortorella è interessante perché pone un discrimine quando afferma che è grottesco abbattere statue “a meno che non si tratti di tiranni”. Lo stesso Tortorella tuttavia cade in contraddizione quando difende la decisione di non rimuovere l’obelisco Mussolini a Roma in base a considerazioni di unità nazionale. Se si eccettua questa intervista, la questione dell’obelisco Mussolini è rimasta fuori dal dibattito sull’iconoclastia marmorea di questi giorni. E non a caso, perché essa imbarazza la sinistra rimandando al problema irrisolto degli italiani col fascismo che “in fondo ha fatto anche cose buone”. Solo il cinismo comunista di Palmiro Togliatti poteva decidere nel ‘46 di lasciare intatto l’obelisco inneggiante al duce davanti al quale ogni giorno passano i ragazzi che vanno al Foro italico per fare sport. Che cosa penseranno? Che era un eroe nazionale? Che ha fatto grande l’Italia? I monumenti raccontano la storia. Giusto. Ma allora raccontiamola tutta e facciamo in modo che accanto a quel monumento “celebrativo” qualcosa spieghi chi è stato e che cosa ha fatto quell’uomo. Che cosa pensereste voi se a Berlino ci fosse un monumento dedicato ad Adolf Hitler Führer? Abbiamo un obbligo morale verso le nuove generazioni. E non si dica che allora dovremmo abbattere il Colosseo, perché i gladiatori non tornano, il fascismo sul cui ripudio si fonda la Costituzione repubblicana può farlo sotto mentite spoglie. Le statue non si abbattono, vero, ma almeno quelle dei tiranni inseriamole nel giusto contesto. E allora per esempio, costruiamo attorno all’obelisco un piccolo museo sul Ventennio oppure deverticalizziamolo adagiandolo per terra. Perché non ci siano equivoci nascosti dietro il comodo schermo dello storicismo.

Marco Cecchini 

 

Il passato non si cancella, caro Cecchini, ma va semplicemente ricordato e spiegato. Se si cancella il passato, lo si fa solo perché non si ha forza sufficiente per spiegarlo, quel passato, e per contestualizzarlo. I ragazzi sono intelligenti e sanno perfettamente o quantomeno dovrebbero sapere che i monumenti non sempre celebrano, ma a volte semplicemente raccontano.


Al direttore - La magistratura è impegnata in una complicata indagine per l’accertamento delle responsabilità penali derivanti dalla mancata istituzione di una zona rossa in due comuni della provincia di Bergamo, Alzano e Nembro. Al proposito, il rimpallo di responsabilità tra stato e regioni cui stiamo assistendo in questi giorni mette in luce una forte conflittualità tra centro e periferia che caratterizza da decenni il nostro sistema istituzionale. Nel merito della questione, mi sembra importante mettere nero su bianco quali siano stati i rapporti tra i livelli di governo nei mesi di febbraio e marzo. Al di là di un approccio letterale alle norme più volte riproposto dalle analisi di questi giorni, occorre non perdere di vista come le norme siano state effettivamente applicate e come ci si aspettava che venissero applicate da tutti gli attori interessati. Innanzitutto, va rammentato che almeno fino al lockdown generalizzato del 10 marzo, le regioni sono intervenute in via residuale con ordinanze molto puntuali (talora d’intesa con il ministero della Salute), senza porsi in diretta concorrenza con lo stato, ma semmai anticipando alcune misure di contenimento. A esso, invece, è spettato il ruolo principale di individuare e ampliare progressivamente le aree di contenimento del contagio attraverso dpcm (si vedano in particolare il dpcm 1 marzo 2020 e il dpcm 8 marzo 2020). In quel frangente, l’individuazione di “zone rosse” era percepita da tutti gli attori istituzionali come un potere rientrante nella potestà esclusiva dello stato, al netto del fatto che l’art. 32 della legge n. 833/1978 riconoscesse un potere di ordinanza in materia di igiene e sanità anche alle regioni. Tale potere, del resto, era stato circoscritto dal d.l. n. 6/2020 e di esso, almeno fino al 10 marzo, si è data un’interpretazione fortemente restrittiva, vista e considerata la potestà dello stato in materia di profilassi internazionale. Le cose sono inopinatamente cambiate dopo il 10 marzo, ossia dopo che tutta Italia è stata trasformata in “zona rossa”. Da quel momento in poi, l’interpretazione delle norme riguardanti i poteri di ordinanza di stato e regioni è progressivamente cambiata sino a dare copertura a un maggiore spazio di intervento delle regioni a scapito dello stato. Nel tentativo di dirimere i conflitti tra enti territoriali, che hanno iniziato a presentarsi dopo l’entrata in vigore del dpcm 22 marzo sulla sospensione delle attività produttive, il governo ha, allora, approvato il d.l. 19/2020, che avrebbe dovuto fissare con maggiore precisione il riparto di competenza tra stato e regioni nel contesto emergenziale. In particolare, l’art. 3.2 ha chiarito che rientrasse nell’esercizio del potere di ordinanza delle regioni l’adozione di misure ulteriormente restrittive anche soltanto per una parte del loro territorio. E’ proprio in questo mutato contesto, quindi, che alcune regioni (come, ad esempio, l’Umbria) hanno iniziato a istituire in via autonoma “zone rosse”. Per riassumere: l’accertamento delle responsabilità penali non può prescindere da un’attenta analisi del quadro normativo emergenziale. Esso, tuttavia, non può essere osservato nella sua staticità, ma deve essere esaminato per come ciascuna disposizione è stata concretamente applicata in quelle settimane. Dopo una prima fase in cui si è tentato di gestire l’emergenza dal centro, il governo, assecondato dalle regioni, ha preferito la strada di un decentramento confuso. L’istituzione delle “zone rosse” ad Alzano e Nembro riguarda purtroppo la prima fase e non la seconda.

Giovanni Boggero, Università degli Studi di Torino 

 

Lo abbiamo ribadito ieri: ad aggravare la pandemia non è stata l’irresponsabilità della politica, ma l’incertezza generata da una delle crisi sanitarie più violente mai conosciute dall’uomo in epoca moderna. Errori ce ne sono stati, naturalmente, ma non sempre gli errori sono colpe. E non dovrebbe essere poi rimosso un fatto che in troppi in questi giorni sembrano aver rimosso: la discrezionalità del potere giudiziario deve finire lì dove inizia la discrezionalità del potere esecutivo.


 

Al direttore - Con riferimento all’articolo di Adriano Sofri apparso sul Foglio di sabato scorso tengo a precisare che la mia posizione è oggi sensibilmente diversa da quella richiamata nell’articolo stesso. Negli ultimi anni infatti, come mi è capitato in diverse occasioni di esplicitare, il mio orientamento in ordine alla opportunità di cancellare il termine “razza” dall’articolo 3 della nostra Costituzione ha subìto un’evoluzione. Da un iniziale favore alla Cassazione di un termine che evoca discriminazione e orrore, sono passata, anche grazie a un proficuo scambio di vedute con il presidente Giorgio Napolitano, a una più attenta considerazione degli argomenti a favore del mantenimento del termine con funzione proprio di monito e memento dei pericoli del razzismo. Colgo quindi l’occasione per ribadire i termini aggiornati del mio orientamento in materia, sostanzialmente coerenti per altro con quelli espressi da Adriano Sofri nel suo articolo. Cordiali saluti e grazie per l’ospitalità.

Liliana Segre, senatrice a vita

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