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Virus ma non solo. La Cina e le conseguenze di un regime illiberale

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Curioso paese la Cina: ci mette dieci giorni per rivelare un’epidemia, e altrettanti per costruire un ospedale.

Michele Magno

L’epidemia del coronavirus, che per il momento per fortuna è un’epidemia che riguarda solo la Cina, si sta trasformando in un gigantesco spot per mettere in luce il lato più oscuro del regime cinese. Ieri, incredibilmente, il segretario del Partito comunista cinese (Pcc) di Wuhan, Ma Guoqiang, in un’intervista all’emittente statale Cctv ha chiesto scusa e ha ammesso che i ritardi della Cina rispetto alla scoperta del coronavirus di Wuhan hanno peggiorato lo stato dell’epidemia. “In questo momento mi sento in colpa, con rimorso e rimprovero. Se fossero state adottate prima le misure di controllo rigorose, il risultato sarebbe stato migliore di quello attuale”. Le ammissioni di colpa dall’interno del partito. Le proteste a Hong Kong. Le elezioni di Taiwan. La battaglia sul 5G. La figuraccia fatta dimostrando l’inaffidabilità sui temi di tutela della salute pubblica. La malattia che forse dovrebbe spaventare la Cina sul lungo periodo non ha a che fare con il coronavirus ma ha a che fare con una progressiva presa di coscienza relativa alle conseguenze generate dalla eterna persistenza di un regime illiberale.

 

Al direttore - “La priorità è superare la legge Fornero rendendo il sistema pensionistico italiano più equo e flessibile’’, ha dichiarato il ministro Nunzia Catalfo annunciando di aver apparecchiato, insieme ai sindacati, tanti tavoli (tecnici) da fare invidia a una mensa della Caritas. Il negoziato verte sul “che fare” quando il sistema pensionistico dovrebbe rientrare, parecchio ammaccato, nelle regole predisposte nel 2011, determinando – dicono – un nuovo “scalone”, ovvero una brusca impennata dell’età di pensionamento. Visto che talune forze politiche della maggioranza continuano a criticare le misure adottate dal governo gialloverde in materia di pensioni, la logica vorrebbe che lo “scalone” si trasformasse in più comodi scalini tali da consentire un avvicinamento graduale. Si sta seguendo, invece, un’altra strada: quella di rendere strutturali le controriforme ereditate dal Conte 1. Ovvero, si andrebbe in pensione a partire da 62 anni con un’anzianità contributiva di almeno venti. Su questo punto sembrano già d’accordo tanto il governo quanto i sindacati, la cui piattaforma nel complesso intende superare la riforma Fornero, ma all’indietro, cestinando non solo la disciplina introdotta dal governo Monti, ma anche le misure più importanti (come l’aggancio automatico e periodico dell’età di quiescenza all’incremento dell’attesa di vita) adottate dall’ultimo esecutivo presieduto da Berlusconi. Prescindendo dalla questione, tuttora divisiva, del tipo di calcolo, viene allo scoperto che una particolare anomalia italiana (il prevalere sostanziale della tipologia del trattamento anticipato di anzianità rispetto a quella della pensione di vecchiaia) diventerebbe la nuova pietra d’angolo della ricostruzione del sistema pensionistico (senza badare alle spese). Del resto i dati parlano chiaro già ora. Sono stati solo 33.123 i dipendenti che nel 2019 hanno lasciato il lavoro a 67 anni mentre 126.107 sono andati in pensione anticipata. Corre voce, poi, che a sinistra del Pd Leu insista per il ripristino dell’articolo 18 e per la modifica di altre misure contenute nel Jobs Act. Sorge legittimo un dubbio. Non sarà che il nuovo bipolarismo di cui si parla come un effetto dell’esito delle elezioni emiliano-romagnole, finisca per tradursi nel confronto tra due populismi, uno di sinistra e uno di destra?

Giuliano Cazzola

Visti i dati sulla crescita e sul lavoro (vedi a pagina a tre) degrillizzare il governo non è più un’opzione: è una necessità.

 

Al direttore - Appena ho saputo che La nave di Teseo stava per pubblicare un volume comprensivo di tutti i libri di Aldo Buzzi, ne ho subito scritto per il Foglio beninteso senza avere ancora visto il volume che tuttora non è in libreria. Dalla famiglia Buzzi mi indicano un’inesattezza contenuta nel mio scritto. Avevo creduto che Antonio Gnoli avesse scritto la prefazione al libro e fosse stato lui a metterne insieme le varie parti. E invece il curatore del libro è Gabriele Gimmelli, un trentunenne milanese studioso di letteratura e cinema, e naturalmente un devoto di Buzzi.

Giampiero Mughini

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