Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Tre mosse per dare senso a un governo che un senso ancora ce l'ha

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Khamenei passa al gruppo misto.

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Caro Cerasa, apprezzo davvero tanto il suo invito continuo all’ottimismo. Il presidente della Repubblica ci ha invitato spesso a non relegare i sogni e le speranze nella “sola stagione dell’infanzia”. Abbiamo tutti bisogno di ritrovare il gusto delle cose semplici e della vita, diventando di nuovo capaci di trasmettere ai nostri figli l’entusiasmo, la passione, l’interesse, la curiosità, la fiducia, la solidarietà e la positività. Per farlo abbiamo la necessità di riprendere contatto con quella fonte di luce che illumina la profondità e la coscienza di ognuno di noi, per poter guardare alla vita, con occhi più sereni e fiduciosi e come ci ha ricordato il nostro presidente, non avendo “timore di manifestare buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società”. In un’Italia in cui sembra vincere l’aggressività, in cui sembra regnare l’arroganza, in cui l’assenza di moralità sembra soffocare la coscienza, abbiamo bisogno di messaggi di positività e ottimismo per tentare di dimenticare, la dimensione dell’odio, facendoci abbracciare quella del rispetto e della solidarietà.

Andrea Zirilli

 

Al direttore - Quando avevo più o meno la sua età assistetti alla radiazione per “frazionismo’’ di un gruppo di militanti comunisti, raffinati intellettuali, raccolti intorno alla rivista Il manifesto. Il 24 novembre del 1969, si riunirono sia il Comitato centrale che la Commissione di controllo del Pci; svolse la relazione/requisitoria Alessandro Natta, un esponente di primo piano che anni dopo divenne segretario del partito alla morte di Enrico Berlinguer. Mi dispiace per lei, ma la sua generazione deve accontentarsi della espulsione di Gianluigi Paragone.

Giuliano Cazzola

 

Al direttore - La discesa a dicembre dell’indice Pmi della manifattura, come il Foglio del 3 gennaio sottolinea, ha rilanciato il tema della necessità di una discontinuità del “Conte 2” rispetto al “Conte 1”. Finora una tale cesura è apparsa assai pallida per non dire evanescente. Mettiamo, tuttavia, in conto – come attenuanti – le misure urgenti che si è dovuto varare con la legge di Bilancio e i pochi mesi decorsi dall’insediamento del nuovo esecutivo. Ora, però, è difficile trovare altre attenuanti per i prossimi mesi. E’ la politica economica e di finanza pubblica, come politica organica con l’occhio oltre il beve termine, che continua a mancare, molto riducendosi a “spezzoni” di misure avulse da una visione d’insieme. E’ quasi un modo di fronteggiare, giorno per giorno, le difficoltà e di affrontare le occorrenze: un compito che certamente l’Esecutivo deve eseguire, ma che non è e non può essere affatto esaustivo. Problemi importanti sono anche altri: la giustizia, la sicurezza, le migrazioni, gli assetti istituzionali, i rapporti con l’Unione europea. Ma ora è forte la sensazione che è sulla politica economica e di finanza pubblica, con tutto quel che ciò significa – lavoro, giovani, produttività, innovazione, Mezzogiorno, debito, banche – che si gioca il futuro del governo.

Con i più cordiali saluti e auguri di un Anno sereno.

Angelo De Mattia

La tassa più pesante con cui questo governo deve fare i conti, più che la plastic Tax o la sugar tax, è la tassa sulla fiducia del paese ereditata dal precedente governo. Per non appesantire ancora di più quella tassa e provare a ritrovare un pizzico di fiducia in più servono tre mosse: risolvere il pasticcio Ilva, vendere Alitalia, riformare l’Irpef. Il resto sono tutte chiacchiere e diversivi.

 

Al direttore - L’ultima trovata dei simpatizzanti della decrescita viene (sic) dall’Ufficio studi della Confcommercio. Si è inventato (per la gioia dell’ex ministro Fioramonti?) un modellino teorico che, cambiando le voci di calcolo del Pil, proponendo un “Pil equilibrato”, trasforma le mele in pere: fa apparire crescita e sostenibilità ambientale dove, in realtà, c’è (purtroppo) declino e peggioramento economico. Dov’è il trucco? Che fa la Confcommercio? Nella letteratura economica internazionale vige un calcolo “astratto” che assegna un costo, di 57 dollari per tonnellata alla CO2 immessa in atmosfera. E’ un semplice criterio orientativo che consente ai governi di valutare il peso delle politiche climatiche. Che fa la Confcommercio? Assume che, anche per le imprese, la CO2 emessa va calcolata in tal modo. Trasformata in puro costo, la si cancella dal conto economico dell'impresa. E si ottiene un beneficio in luogo del costo. Esteso al calcolo dell’intero conto economico del paese, ci darebbe, così, il Pil equilibrato e la sostenibilità ambientale. Sarebbe bello. Peccato che non funziona. Il modello Confcommercio è, clamorosamente, smentito dai suoi stessi numeri. Applicato al ciclo economico europeo 2008/2017, produce risultati “sorprendenti”. Che, chissà perché, gli economisti di Confcommercio trovano incoraggianti: l’Italia avrebbe visto migliorato di uno striminzito 0,5 per cento la sua decennale e cronica stagnazione. A fronte però di un disastro dell’area economica dell’Unione: per Germania e Francia, ad esempio, confessa Confcommercio, il suo modello avrebbe peggiorato (e di molto) il risultato economico dei due paesi. La pur debole crescita dei paesi locomotiva, a parte l’Italia, dell’area europea nel decennio si sarebbe trasformata in aperta decrescita. E pure pesante. Insomma: il modello Confcommercio, eliminare per decreto il “costo” della CO2, produce stagnazione e decrescita. Come era ovvio immaginare. Che per qualche artificio statistico, “solo” l’Italia, ottiene nei calcoli del modello, un impercettibile segno +, non dovrebbe far esultare. Ma, semmai, indurre a ricercare dov’è il baco nel modello proposto. La verità, che l’ambientalismo ideologico rimuove, è che per le imprese che emettono la CO2, non è condiderabile come semplice costo o fastidiosa esternalità. Infatti, non compare come tale nel conto economico. Perchè? Semplice: per le imprese (ma vale per l’intero Pil di un paese) le emissioni sono un fattore, difficilmente separabile dall’andamento generale dei fattori produttivi (volumi, produttività, fatturato, ricavi). Che la CO2 si trasformi in un costo è un fatto distorsivo e depressivo per i conti aziendali. Che va affrontato con compensazioni e non “cancellandolo”, in astratto, dal conto economico. Così si compromette l’intera attività aziendale (o il Pil nazionale). E il risultato sarebbe la decrescita. Abbattere la CO2, per decreto, trasformandola in puro “costo economico” per le aziende (tassandola, vietandola o eliminandola per decreto), come fa Confcommercio, è un incredibile non sense. Il risultato non è la “crescita sostenibile” ma l’insopportabile decrescita. La soluzione? Da “puro costo” la CO2, se si ritiene di abbatterla senza conseguenze negative sul ciclo economico, dovrebbe diventare, invece, “opportunità”: per investire in tecnologie che riducano le emissioni a parità di volumi e fatturati. Da compensare con benefici fiscali, sostegno agli investimenti innovativi, politiche energetiche low carbon, che non aumentino il costo dell’energia. Insomma, non comprimendo il ciclo economico. A partire da quello dei consumi. Se proprio i rappresentanti dei commercianti prospettano la decrescita, vuol dire che si guadagneranno i forconi dei propri rappresentati.

Umberto Minopoli

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