Tobagi sull'articolo di Sofri (con replica). Bce e populismo: ci scrive Giavazzi. Lettera di Gotor (e risposta)

Giuseppe De Filippi

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 17 dicembre 2019

Al direttore - Però se Di Maio deve renderci felici, almeno una canna light ci voleva.

Giuseppe De Filippi


 

Al direttore - Insieme a tanti, milanesi e non, ho partecipato, negli scorsi giorni, alle molte iniziative organizzate per commemorare Pino Pinelli. Come tanti cittadini, considero la mancanza di verità sulla sua morte una ferita profonda. Per questo credo sia importante correggere alcuni punti dell’articolo dello scorso 14 dicembre in cui Sofri invoca la riapertura delle indagini, ma con un testo pieno di errori (o volontarie mistificazioni?), sofismi e reticenze, esempi di modalità retoriche e di un atteggiamento che a tutto portano, fuorché alla verità, che necessita di rigore e onestà intellettuale.

 

Sofri pone la testimonianza dell’anarchico Pasquale Valitutti come pietra d’inciampo sul cammino delle ricostruzioni della notte del 15 dicembre alla questura di Milano, quando Pinelli morì. Ma, cito testualmente dal libro (menzionato dallo stesso Sofri) di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini, “Pinelli. La finestra è ancora aperta”, pp. 213: “Lello Valitutti, che dallo stanzone dei fermati poteva vedere il corridoio, ha sempre detto che non vide Calabresi uscire dalla stanza e dirigersi verso lo studio di Allegra. Al quarto piano c’erano però altri uffici, oltre a quello di Calabresi ove si svolgeva l’interrogatorio, e che Valitutti non poteva vedere, e sotto il quarto piano c’è il terzo collegato con scale di servizio. Dunque frotte di persone potevano entrare e uscire dalla stanza di Calabresi senza essere viste, ivi comprese quelle non poche che, come ha spiegato Carlucci, dovevano restare riservate e così restarono per ben 27 anni!”.

 

Nelle pagine successive, con tanto di piantine della questura, e dopo aver considerato molti testimoni (non solo Antonio Pagnozzi, che parla di una scrivania per Russomanno collocata nell’ufficio di Allegra: ma forse quando il vertice degli Affari riservati era a Milano in veste ufficiale, come risultava dagli atti del 1969-70, e non in via riservata e con una nutrita squadra), ipotizza che il personale degli Affari riservati giunto di nascosto da Roma stazionasse in uffici al terzo piano, facilmente raggiungibile dalle scale di servizio contigue all’ufficio di Calabresi, e invisibili dal punto dov’era Valitutti. La ricerca più approfondita finora pubblicata sulla morte di Pinelli (coautore un anarchico) prospetta dunque uno scenario che elimina le contraddizioni tra la sua testimonianza e l’assenza di Calabresi, attestata dalla sentenza D’Ambrosio. La ricerca storica sottopone al vaglio critico le testimonianze e talvolta – lungi dall’essere lo “specchio deformante” cui dovrebbero rassegnarsi i “testimoni duri a morire” di cui scrive Sofri – riesce a sciogliere apparenti contraddizioni, come abbiamo poi spiegato agli studenti di Storia presenti al convegno su Piazza Fontana alla Sapienza del 4 dicembre, “Noi sappiamo e abbiamo le prove”, a cui Sofri fa riferimento. In quella sede ho provato, ripetutamente, a domandare al Valitutti come rispondeva alla ricostruzione del suo compagno Maltini e dell’avvocato Fuga (a cui i miei scritti, contro cui lui si scagliava, fanno riferimento). Mi ha ignorato, ripetendo imperterrito la sua versione. E Sofri, che pure afferma di aver ascoltato due volte la registrazione, mi attribuisce frasi che non solo “non sono testuali”, ma alterano in modo significativo tono e senso del mio discorso. Non le affermazioni apodittiche da far saltare sulla sedia che mi attribuisce, ma: “Tra le varie cose che possono essere successe, e che corroborano quanto è stato affermato, nella ricostruzione di D’Ambrosio rispetto […] alla non presenza di Calabresi, contestata dalla testimonianza di Valitutti, presente in questura, [Fuga e Maltini] per esempio dicono, essendoci queste persone che non stavano nell’ufficio di Allegra, stavano da qualche altra parte, ed erano loro i veri capi dell’inchiesta in corso [su piazza Fontana], una persona poteva anche uscire ad andare a raggiungere il personale di Russomanno” (per facilitare i lettori, da 3:12:44 nella registrazione di Radio radicale). Potrete sentirmi dire, poco dopo: “Tutti hanno mentito” (sul suicidio di Pinelli, fatto riconosciuto a più riprese anche dal Quirinale) e “non c’è stata nessuna santificazione del commissario Calabresi che è stato assassinato il 17 maggio 1972” (da Lotta continua, secondo sentenze passate in giudicato, mandanti Sofri e Pietrostefani, esecutori Bompressi e Marino, e non “da un sicario”, come ha scritto di recente Enrico Deaglio sul Venerdì di Repubblica).

 

“I lettori comuni sono distrattissimi”, scrive Sofri, “perfino i più sensibili al tema”. Ma lui pare proprio non averlo letto, il libro di Fuga e Maltini. Tra l’altro, gli autori del saggio non scrivono (come fa invece Sofri) che nel piccolo ufficio di Calabresi si fossero affollati tutti insieme 10 o 15 uomini dell’ufficio Affari riservati: sarebbe sembrata la nota scena della stanza affollatissima del film “Una notte all’opera” dei fratelli Marx. Fuga e Maltini, sulla base delle informazioni disponibili, concludono: “In quei piani alti della questura i chi, i dove e i quando sono sempre stati molto incerti”. E lì siamo, purtroppo.

 

Sofri rimprovera alla pm Maria Grazia Pradella di non aver chiesto a Russomanno dove fosse, durante l’interrogatorio di Pinelli. Su questo sta a lei rispondere. In base al materiale disponibile, però, viene da chiedersi come avrebbe potuto verificare la veridicità dell’eventuale risposta. Fuga e Maltini, al termine del saggio, chiedevano la riapertura delle indagini. Chi ha studiato un po’ vicende di questo genere, sa bene però che questa necessita quasi sempre dell’impulso decisivo di documenti che siano risolutivi anche sui fatti specifici (e speriamo che le ricerche serie continuino!), o di collaboratori di giustizia, oppure di testimoni che raccontino senza reticenze tutti i fatti, anche scottanti, di cui sono a conoscenza. Sofri sarebbe nella posizione di offrire un luminoso esempio di trasparenza, se volesse. In due articoli pubblicati su questo giornale il 27 e 29 maggio 2007, infatti, Sofri ha raccontato che, intorno al 1975, l’ex dominus degli Affari riservati in persona, Federico Umberto D’Amato, gli propose di compiere “un mazzetto di omicidi” (testuale), garantendogli impunità. D’Amato è morto nel 1996, dunque non poteva commentare, confermare o smentire. Tuttavia, in un interessante documento rinvenuto dopo la sua morte, un abbozzo d’autobiografia dal titolo “Memorie e contromemorie di un questore a riposo” (agli atti del processo per la strage di Brescia e citato dallo studioso Giacomo Pacini nella sua “Storia degli Affari riservati”), D’Amato raccontava dei rapporti amichevoli, a fini di lavoro, con personaggi “come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)”. Aldo Giannuli mise in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio (non so se sia vero), ma a leggere la frase, specialmente dopo le rivelazioni dell’interessato, nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D’Amato sorseggiava alcolici d’annata, Sofri bevesse, che so, chinotto. Dopo un vespaio di polemiche, tutto tacque. L’ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia. Dal 2007, siamo in tanti ad aspettare che Sofri, e magari anche altri, per esempio l’ignoto “conoscente comune” che lo mise in contatto con D’Amato, parlino davvero, anche di questi rapporti con l’ufficio Affari riservati. A maggior ragione dopo le rivelazioni, le inchieste e gli studi che Sofri ricorda. Anziché limitarsi a lamentare le reticenze altrui, vuole dare coraggiosamente l’esempio, per le vicende di sua conoscenza e competenza, così da ispirare altri che, forse, potranno aggiungere tasselli o dare documenti utili per capire cosa accadde davvero a Pino Pinelli, e magari portare a una riapertura delle indagini? Altrimenti, duole dirlo, sembra il bue che dà del cornuto all’asino.

Benedetta Tobagi, scrittrice e studiosa autrice di “Piazza Fontana. Il processo impossibile” (Einaudi 2019)

Risponde Adriano Sofri. Ehilà. Ho obiettato a una frase, che mi era parsa “sfuggita”, di Benedetta Tobagi nel dialogo imprevisto con Pasquale Valitutti. Ho allegato il link alla registrazione, che mi sembrava notevole, com’è l’incontro fra un testimone e una storica. “Errori (o volontarie mistificazioni?), sofismi e reticenze, esempi di modalità retoriche e di un atteggiamento che a tutto portano, fuorché alla verità…”, che Tobagi ha letto nel mio scritto, mi dispiacciono molto, ma riguardano lei. Dunque rispondo qui sul punto evocato. Valitutti, che aveva la visuale aperta sul corridoio su cui dava l’ufficio di Calabresi, dice da cinquant’anni di non averlo visto passare per andare dalla sua stanza in quella di Allegra. Fuga e Maltini spiegano (come mi conferma Gabriele Fuga) che all’ufficio di Allegra, Calabresi, e chiunque altri, avrebbe potuto andare da un altro percorso che non fosse quello dalla sua stanza, come avvenne forse, suggeriscono, ma mezz’ora prima della defenestrazione di Pinelli. Il quale era allora interrogato, nella loro ipotesi, da Russomanno: elemento degno o no di una riapertura del caso? Per intenderci: non penso alla particolare riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, ma di quella intera sul concorso in strage. Del resto, caso mai, un’altra volta: avrei dovuto bere forte davvero con D’Amato per scrivere ancora oggi, come Tobagi mi addebita, che nella stanza c’erano i 10 o 15 ceffi degli Affari riservati.


 

Al direttore - Alberto Mingardi (“Una società senza credo”, 14 dicembre) si allinea con la Bundesbank accusando la politica monetaria attuata dalla Bce, e sempre avversata dalla Banca centrale tedesca, di aver fomentato la “cultura dell’immediato” e la conseguente caduta del tasso di risparmio. Una scelta che, secondo Mingardi, avrebbe contribuito a diffondere la cultura dell’“istintivismo” che ha indotto a votare per chi “promette un presente perpetuo”. Insomma, Quantitative easing e tassi negativi sarebbero responsabili per l’ascesa del populismo. Scorda Mingardi che il risparmio delle famiglie dipende sì dai rendimenti attesi, e quindi dal tasso di interesse, ma ancor più dall’incertezza sui propri redditi futuri, la quale induce, per precauzione, a risparmiare di più. Contribuendo in modo determinante alla ripresa dell’economia dell’Eurozona e alla creazione, dal 2013, di 9,5 milioni di posti di lavoro, di cui 1 milione ciascuno in Francia e in Italia, la Bce ha sostenuto il reddito delle famiglie e quindi, è vero, ha ridotto il risparmio precauzionale. Curiosa idea quella di mantenere elevate incertezza e disoccupazione per tenere alto il tasso di risparmio. Questo sì, avrebbe fatto volare il populismo.

Francesco Giavazzi


 

Al direttore - Ricordo bene o in campagna elettorale Salvini era quello che tuonava contro gli orrendi partiti che accoglievano tra le proprie file i “voltagabbana”?

Francesco Lucidi

E’ così e viene da sorridere. La Lega di Matteo Salvini, da mesi, dalla campagna elettorale del 2018, dice, in perfetta simmetria con il grillismo, di voler abolire l’articolo 67 della Costituzione, quello che prevede che deputati e senatori esercitino le loro funzioni senza vincolo di mandato. Nel programma del governo del cambiamento, invece, la Lega aveva promesso di introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, “per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”. Negli ultimi 14 giorni, però, la Lega ha accolto tra le sue file quattro parlamentari provenienti da altri partiti. Il 3 dicembre, da Forza Italia, è arrivato Antonino Minardo. Il 12 dicembre, dal M5s, sono arrivati Ugo Grassi, Stefano Lucidi, Francesco Urraro. Sono arrivati dal M5s, ai quali ovviamente la Casaleggio Associati non ha chiesto indietro i 100 mila euro di multa che aveva promesso di chiedere ai “voltagabbana” eletti con il Movimento. La realtà è più forte di qualsiasi forma di sfascismo anti democratico e la stessa realtà dovrebbe ricordarci anche in futuro che i paesi che non hanno vincolo di mandato per i propri parlamentari di solito sono quelli che giocano con la libertà della propria democrazia.


 

Al direttore - Caro Giuliano Ferrara, mi spiace che le quattro righe che ti ho dedicato nel libro “L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon” ti abbiano, addirittura, “offeso quel tanto che è necessario”. E’ vero: guardavo le tue trasmissioni, ascoltavo le note di Leporello, mi divertivo a vedere come fingevi di sedare le risse a suon di schiaffi tra Roberto D’Agostino e Vittorio Sgarbi e apprezzavo la grazia con cui riuscivi a uscire da un bidone di immondizia annunciando l’arrivo della Tv spazzatura. A mio parere, in quegli anni di transizione e, come scrivi, “di tramonto doloroso della Repubblica dei partiti”, hai rivestito esattamente il ruolo che ti attribuisco nel libro, vale a dire quello di chi “ha introdotto in Italia l’infotainment intorno all’idea del processo alla politica amplificato dal concetto di Tv spazzatura”. Peraltro, come sentenziato da chi ne sa più di me in tema, vale a dire Aldo Grasso nella sua Enciclopedia della televisione. Posso sbagliarmi, ovviamente, ma penso che, retrospettivamente, si sia trattato di uno dei momenti di fondazione di quel “format unico dell’antipolitica catodica” (secondo solo a Gianfranco Funari e a “Striscia la notizia”) che sarebbe stato egemone nei decenni successivi e continua a esserlo. Perciò quel momento meritava di essere ricordato in una storia d’Italia attenta alle evoluzioni del costume e della società come la mia. Lo avrai pure fatto – allora – in controtendenza e, sicuramente, con il disincanto di chi la politica, quella vera, l’aveva conosciuta nella stagione precedente nella sua massima espressione novecentesca, ma così è stato, almeno per me. Spero che avrai voglia e il tempo per leggere l’intero libro e che potremo avere occasione per parlarne insieme. Con viva cordialità.

Miguel Gotor

Alimentare l’antipolitica, caro Gotor, significa alimentare un meccanismo che tende ad agevolare la distruzione della politica, che punta a disintegrare la struttura dei partiti, che mira ad aggredire i princìpi non negoziabili di una democrazia liberale. Chiamare antipolitica ciò che antipolitica non è, è tipico di quegli osservatori distratti che tendono a ricercare la radice di alcuni problemi assai lontano dalla radice dei problemi reali. Ho fatto una rapida ricerca nel suo libro, all’interno del capitolo dedicato al “crollo della repubblica dei partiti” (capitolo XII) e all’interno del capitolo dedicato alla “Repubblica dell’antipolitica” (capitolo XIII), e ho cercato a lungo un qualsiasi riferimento al ruolo avuto, in questa crisi, dal circo mediatico-giudiziario e dalla repubblica delle procure. Non ho trovato nulla, se non un piccolissimo accenno all’“irritualità” con cui i pm del pool di Mani pulite risposero al famoso decreto legge firmato da Giovanni Conso. Le scrivo tutto questo perché da quel che ho potuto leggere del suo libro lei, proprio da storico, commette un errore che uno storico equilibrato non dovrebbe commettere: l’antipolitica che sta distruggendo l’Italia non è figlia di quello che lei chiamerebbe berlusconismo ma è figlia di tutto ciò che ha provato ad abbattere il berlusconismo con tutti i mezzi leciti e non leciti. Come diceva Alda Merini, caro Gotor, confondere ciò che non è cioccolato, ma ha lo stesso colore del cioccolato, con la cioccolata è un privilegio delle persone estremamente colte.