Salvini e i nemici: dare un senso a un governo che un senso ancora ce l'ha

Al direttore - Ma quindi abbiamo sia Salvini che vince elezioni sia governo Pd/Grillo/Speranza?

Giuseppe De Filippi

 

Il governo deve smettere di credere che il suo senso sia trovare la giusta chiave per sconfiggere Salvini alle elezioni. Pd e M5s devono pensare a come governare, a come dare un significato a questa legislatura, e nel momento in cui si occuperanno un po’ più dell’Italia e un po’ meno dei loro deficit elettorali sarà possibile dare un senso a questa storia che un senso eccome se ce l’ha: fermare il salvinismo per riavvicinare l’Italia all’Europa. Il resto sono chiacchiere.

 


 

Al direttore - Giustamente il Foglio del 29 ottobre si chiede dove andrà a finire il modello Mediobanca. In effetti di vero modello di questo Istituto si poteva parlare “Cuccia regnante”, quando, anche per la legislazione speciale che la disciplinava, poteva essere tricefala: istituto di credito a medio e lungo termine, merchant bank e holding di partecipazioni. Gli sviluppi normativi, la parità concorrenziale, i mutamenti nella governance hanno relegato alla storia tale unicità funzionale. I successivi modelli sono il derivato di visioni pragmatiche, non più ambiziose strategicamente. La scossa che imprime la Delfin di Del Vecchio, che è diventato il secondo azionista dopo l’Unicredit, può risultare salutare; pone, che sia condivisibile o no, l’esigenza che l’istituto privilegi la funzione di banca d’investimento; a quanto sembra, solleciterebbe modifiche statutarie che riguardino la nomina alla carica di amministratore delegato, ora attribuibile solo a un dirigente interno, per aprirla alla competizione anche esterna; sarebbe l’inizio di un percorso per superare, previa l’autorizzazione della Vigilanza, il livello della partecipazione nell’istituto del 10 per cento. I requisiti di idoneità, di potenzialità finanziaria, di specifiche competenze, di onorabilità, di esperienza, di trasparenza, nonché di assenza di insormontabili conflitti di interesse e di chiarezza nelle strategie dovrebbero essere vagliati, ma sarebbe assurdo ritenere “a priori” che costituiscano un problema per un personaggio dalle disponibilità e dalla storia di Del Vecchio. Vedremo quale sarà l’evoluzione, ma che si apra una competizione che coinvolge quello che un tempo era il santuario dei patti di sindacato, delle costruzioni societarie piramidali, delle acrobazie e cosmesi finanziarie è un fatto importante, naturalmente partendo dal presupposto della rigorosa tutela della stabilità aziendale e della protezione del risparmio. Che, poi, per questa via, si miri o no alle Generali sarà tutto da dimostrare e, comunque, non comporterà affatto che ci si debbano strappare i capelli.

Angelo De Mattia

 


 

Al direttore - Per come è stato preparato e per come si è svolto, il Sinodo amazzonico è stato l’ennesimo esempio di quanto il pragmatismo abbia fatto breccia nella riflessione teologica e pastorale. Pragmatismo che nella fattispecie ha funzionato grosso modo così: a) per poter svolgere la sua missione la chiesa necessita di sacerdoti; b) in Amazzonia di sacerdoti non ce ne sono a sufficienza; c) ergo, servono soluzioni per sopperire alla carenza. Punto. La debolezza di tale approccio è che trascurando, perché magari ritenuta inutile a fini pratici, una seria riflessione circa le cause del fenomeno, rischia di proporre soluzioni dal respiro corto. Detto altrimenti: se è vero, come è vero, che la scarsità di clero è solo un sintomo di una malattia più profonda, logica vorrebbe che si cercasse prima di capire di che malattia si tratta e poi adoperarsi per curarla nel modo più opportuno. Se all’opposto sbagli diagnosi, o peggio non la fai neanche, magari riesci a mettere una toppa sul breve termine, ma presto o tardi i nodi verranno di nuovo al pettine. Con un conto che nel frattempo potrebbe essere molto più salato. E da dove venga la crisi delle vocazioni e la scarsità crescente del clero è noto a tutti, almeno a quelli che hanno occhi per vedere: si chiama crisi di fede, con buona pace delle analisi psico-socio-antropologiche che, in ambito ecclesiale, lasciano sempre il tempo che trovano. Ma proprio l’origine della crisi ci porta dritti al punto. Perché la chiesa ha già al suo interno i necessari anticorpi e una, non l’unica, cura per provare a sanare la situazione. E’ vero, la crisi del sacerdozio è un fenomeno che va oltre i confini dell’Amazzonia. Ma c’è un ma. Dato dal fatto che a fronte di seminari sempre più vuoti, i movimenti e le realtà ecclesiali laicali sono invece pieni di vocazioni. Stiamo parlando di tutti quei carismi sorti negli anni attorno al Vaticano II, dove non solo le istanze del rinnovamento conciliare hanno trovato attuazione nel giusto modo, ma che anche hanno avuto l’indubbia quanto provvidenziale missione di puntellare la barca di Pietro nella turbolenta stagione postconciliare. Prevengo l’obiezione: trattasi di piccoli numeri, uno zero virgola in rapporto alle dimensioni del problema. Forse è vero (o forse no). In ogni caso la domanda resta: come mai i movimenti ecclesiali sono pieni di giovani, ragazzi e ragazze, che scelgono la vita sacerdotale o contemplativa? La risposta è presto detta: perché ciò che li contraddistingue, al di là del carisma specifico, è che tali realtà sono in grado di attrarre e di risvegliare nei giovani quella cosa che altrove non trovano: la fede. Fede senza la quale non solo non ha senso il sacerdozio o la vita monastica, ma prima ancora non ha senso il cristianesimo. E’ da qui, come per altro è stato giustamente evidenziato su queste colonne, che il prossimo Sinodo dovrebbe (ri)partire. Sempre che, ovvio, la chiesa abbia ancora una qualche coscienza del suo essere, in ultima istanza, una realtà la cui origine e la cui meta non sono di questo mondo, e che in questo mondo è solo di passaggio.

Luca Del Pozzo

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