Il populismo si batte con ottimismo e intolleranza. Lezione dal caso Luxottica

Al direttore - Qui c’è uno che dice che Atlantia è decotta e a tremare è Merkel?

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Nei giorni scorsi i vertici di Luxottica e i sindacati hanno firmato un contratto integrativo che rappresenta una significativa novità nel panorama domestico delle relazioni industriali. Non so se anche per il ministro Di Maio, che – forse troppo impegnato a marcare Salvini – credo non lo abbia degnato di un commento. Eppure si tratta di un accordo che meriterebbe una certa attenzione, perché ci dice che le sfide della tecnologia e dei mercati possono essere affrontate senza comprimere i diritti e il salario di oltre undicimila dipendenti, ma valorizzandone l’impegno, le competenze, la professionalità. Infatti, nei sei stabilimenti italiani del più grande gruppo mondiale dell’occhialeria (dopo la fusione con Essilor), viene sperimentata una “via alta” della competitività: partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa, scambio virtuoso tra orari flessibili (a parità di retribuzione) e assunzioni stabili, formazione continua, generoso welfare aziendale. Un modello di fabbrica che è figlio, ha affermato qualche dirigente sindacale, di quello ideato e attuato da Adriano Olivetti nella seconda metà del secolo scorso. Ecco, qui non sono d’accordo. Cerco di spiegare perché. E’ vero che quella della Olivetti è stata una realtà emblematica, intorno alla quale stava l’ordinata e operosa comunità di Ivrea. La migliore cultura urbanistica e architettonica aveva reso luminosa la fabbrica e vivibile la città e il Canavese tutto. Con la direzione collaboravano studiosi del calibro di Giorgio Fuà, Alessandro Pizzorno, Franco Momigliano, Paolo Volponi, Franco Fortini e molti altri. Come ha scritto Aris Accornero in uno dei suoi libri più maturi (“Era il secolo del lavoro”, il Mulino, 1997), in quei tempi di guerra fredda e di aspre contrapposizioni ideologiche, una prestigiosa rivista – Comunità – diffondeva cultura e bisogni di un riformismo sociale coraggioso. Il management intratteneva con la Cgil rapporti corretti e non licenziò mai nessuno per motivi sindacali o per rappresaglia politica, sebbene si fosse dotato di un’organizzazione autonoma che in parte assorbiva e in parte esorcizzava la protesta operaia. In questo senso, costituiva davvero un caso a sé: appena a cinquanta chilometri di distanza c’era la Fiat, che esibiva un regime di fabbrica fra i più duri. Tutto ciò è vero, ma dentro a una tale oasi di civiltà industriale si celava un modo di lavorare ancora più intollerabile, caratterizzato da mansioni sommamente parcellizzate e dove l’assemblaggio degli innumerevoli pezzi che componevano le macchine da scrivere e le calcolatrici veniva svolto in una frazione di secondo. Su stazioni di lavoro ergonomicamente pensate per il massimo risparmio di movimenti, di tempo e di fatica, lunghe file di operaie-contadine introducevano con destrezza, in ciascuna delle feritoie, i tantissimi tasti e levismi che corrispondevano agli alfabeti di mezzo mondo, secondo cadenze che gli “allenatori” avevano provato e riprovato, e delle quali poi i cronometristi avevano accuratamente misurato la durata media, minima, massima. Soltanto qui poteva lavorare Albino Saluggia, il protagonista del “Memoriale” di Volponi, un disadattato che sperimenta sulla propria pelle gli aspetti più ingrati del nascente capitalismo. Quell’epoca è ormai alle nostre spalle, e non va mitizzata con nostalgia. Sarebbe buffo se oggi ci scoprissimo, magari a nostra insaputa, nostalgici del “travail d’antan”.

Michele Magno

 


 

Al direttore - Il nostro sistema istituzionale, politico, culturale, a tutti i suoi livelli operativi, è stato costruito per limitare al massimo i poteri decisionali dell’esecutivo, comunque pittato e composto. Questa impostazione, inutile –quasi patetico girarci intorno – ha impedito che sicurezza e tasse, gli unici grandi temi che stanno a cuore agli elettori, potessero essere affrontati al loro iniziale manifestarsi, in modo appropriato. Un vuoto operativo di cui Salvini ha saputo interpretare il potenziale. La vera lotta è tra chi vuole una Costituzione “da democrazia diretta” e chi la vuole da repubblica semipresidenziale. Può sfuggire, anzi agli elettori sfugge, il cuore dell’attuale caos politico. Non dovrebbe però sfuggire né alla Ciliegia, né all’Elefantino.

Moreno Lupi

 

La vera lotta politica oggi è tra chi crede alla fuffa e chi denuncia una truffa. Ma se chi denuncia la truffa (del populismo) oggi è creduto meno di chi spaccia ogni giorno fuffa il problema purtroppo è più dei primi che dei secondi.

 


 

Al direttore - Purtroppo le cose stanno così: contrastare Salvini oggi significa rafforzare Salvini, così come contrastare Trump significa oggi rafforzare Trump. Come uscire da questo gioco perverso e imporre un nuovo discorso politico? E’ questa la sfida in Italia e in molte altre democrazie. Mi ha molto fatto riflettere come Imamoglu, il neosindaco, di Istanbul abbia vinto spargendo ottimismo: “Tutto sarà molto bello” e invitando all’“amore inclusivo” col dire ai suoi sostenitori: “Quando incontrate chi non la pensa come voi, abbracciatelo”.

Chiara Buttini

 

La società del pessimismo si batte con l’ottimismo, contrapponendo cioè a una visione tetra del futuro una visione positiva, di chi cioè è consapevole che il progresso più che una fonte di terrore è una fonte di opportunità. Il sindaco di Istanbul ha ragione a dire di abbracciare chi non la pensa come noi. Ma come diceva Karl Popper una società aperta, e tollerante, deve imporre un limite alla sua stessa tolleranza, pena la sua autodistruzione. E questo, se ci consente, è il momento di essere ottimisti, sì, ma è anche il momento di essere incazzati e di non essere più disposti a tollerare e abbracciare gli intolleranti.

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