Dentro e fuori dalla maggioranza: Radio Radicale. Le ragioni dei sindacati contro il governo: ci scrive Furlan (Cisl)

Le lettere del 14 giugno al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Dentro ma fuori dalla maggioranza.

Giuseppe De Filippi

    

Non vuol dire niente ma tutto quello che la Lega non riesce a fare con il M5s potrebbe farlo, e a volte lo fa pure, con il Pd. Con Radio Radicale è andata così. Non vuol dire niente. O vuol dire qualcosa?


    

Al direttore - Il calo della produzione industriale registrato dall’Istat ad aprile, il secondo consecutivo, è l’ennesimo dato negativo per la nostra economia. Solo il settore dell’Auto ha perso il 17,1 per cento della produzione in un anno. Sempre più aziende entrano in crisi, aumenta il ricorso alla cassa integrazione, calano le assunzioni stabili e, anzi, sempre più lavoratori sono a rischio. Un quadro davvero allarmante. Per questo oggi saremo accanto ai lavoratori metalmeccanici che protestano in tante città italiane, così come hanno fatto nelle scorse settimane gli edili, i pensionati, i lavoratori pubblici, contro l’immobilismo di un governo, in perenne campagna elettorale e ogni giorno alle prese con i propri contrasti interni. Ha ragione Giuliano Ferrara quando sul Foglio parla di un governo che ha sollevato i fantasmi della paura in nome del popolo, ma al popolo finisce per far pagare il conto stesso della paura autarchica. Siamo drammaticamente a crescita zero, come ha confermato anche il Def, con una procedura di infrazione già aperta dall’Unione europea sul rientro del nostro debito pubblico. Già a dicembre Cgil, Cisl e Uil avevano fatto presente al premier che le misure utili a sostenere la crescita erano del tutto insufficienti nella legge di Bilancio. Siamo stati facili profeti. Ed è ormai chiaro a tutti che la prossima manovra finanziaria sarà un macigno insormontabile, visto che bisognerà trovare 23 miliardi necessari per sterilizzare l’aumento dell’Iva, 10 miliardi per la mancata crescita, altrettanti per finanziare quota 100 e il reddito di cittadinanza, 30 miliardi per la flat tax. Tutti i nodi stanno, dunque, venendo al pettine come dimostrano anche le 160 vertenze aperte al Mise, con circa 300 mila lavoratori coinvolti da chiusure, delocalizzazioni, mancati investimenti, crisi aziendali, continui processi di ristrutturazione. Non può certo bastare la minaccia di revocare gli incentivi alle aziende, una misura che, tra l’altro, è già prevista dalla legge. Così come non è sufficiente affermare che il futuro produttivo del nostro paese arriverà dalla sinergia intelligente (e più che mai necessaria) con le nuove tecnologie digitali, dalla ricerca di una maggiore produttività o da una migliore distribuzione dei carichi di lavoro. Manca una visione generale, un approccio serio di condivisione con i corpi intermedi, sia sindacali che datoriali, per la soluzione dei problemi. C’è una scarsa continuità e attenzione alla soluzione delle crisi aziendali e ciò che viene spesso pubblicizzato come un successo, dopo poco tempo, ritorna come un macigno sui tavoli del ministero dello Sviluppo, come dimostrano le vicende spinose di Alitalia, Arcelor Mittal, Whirlpool, Alcoa, Termini Imerese, Bombardier, Piaggio Aero, Pernigotti, Mercatone uno, e tante altre. Le aziende vanno avanti senza tener conto di alcuna regola e del rispetto né per i lavoratori, né tanto meno per chi li rappresenta. Una situazione, questa, a dir poco incresciosa. Il compito di un governo è quello di saper fare “sistema”, di coinvolgere imprese e sindacati in un “patto” sociale, di cui ha parlato anche il presidente di Confindustria Boccia, per una nuova politica industriale e un modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, sbloccare davvero le infrastrutture, favorire i nuovi investimenti in innovazione, ricerca, formazione adeguata alle nuove sfide. Significa anche discutere su come introdurre in Italia una vera democrazia economica e la partecipazione azionaria dei lavoratori, in modo da controllare le scelte dei manager e tutelare i posti di lavoro, le produzioni di eccellenza, la qualità del nostro sistema manifatturiero. Questo servirebbe oggi al nostro paese. Anche la vicenda dell’accordo sfumato Fca-Renault è in tal senso emblematica. Con la fusione ci sarebbe stata la possibilità straordinaria di creare un grandissimo player internazionale in un settore strategico per la crescita davvero rilevante a livello europeo. Si è persa, invece, una occasione storica per far progredire queste tre grandi aziende alle prese da tempo con problemi simili, adducendo una serie di giustificazioni che nulla hanno a che vedere con il futuro del mercato dell’Auto. Da un lato abbiamo avuto il protezionismo del governo francese, a parole molto europeista ma non nei fatti. Dall’altro, il nostro governo non si è accorto di quello che stava avvenendo, assolutamente distratto a discutere i suoi problemi “contrattuali”. Ecco perché saremo anche oggi nelle piazze insieme ai lavoratori metalmeccanici. Non per motivazioni politiche o per un logica antagonistica. Noi chiediamo una svolta, un cambiamento vero nella linea economica e sociale di questo governo. E continueremo a sostenerlo con forza anche il 22 giugno a Reggio Calabria nella nostra grande manifestazione sul Mezzogiorno assolutamente dimenticato dal governo. Non faremo sconti a nessuno, sapendo che per la Cisl lo sciopero generale è una cosa seria, che non si sventola tutti i giorni come una sorta di totem, ma si proclama unitariamente quando ogni tentativo di confronto non è andato in porto. Il riformismo di tutte le forze politiche si misura sui temi del lavoro e della crescita, aprendo un dialogo serio e costruttivo con le parti sociali, su scelte eque e sostenibili. Altrimenti a pagare, ancora una volta, saranno i più deboli.

Annamaria Furlan, segretaria generale Cisl

   

Il populismo è contro il popolo. E che siano i sindacati a ricordarlo non è un dettaglio laterale: è la chiave centrale per provare a smuovere le coscienze dei sonnambuli.


     

Al direttore - Sul Foglio di qualche giorno fa, Mariarosa Mancuso ha citato la petizione su Change.org per riscrivere l’ultima stagione del “Trono di Spade” per dimostrare quanto la “sceneggiatura partecipativa” rappresenti la “fine” dei format televisivi. Si tratta di una campagna molto popolare sulla piattaforma: in poco tempo ci ha fatti diventare più famosi dello stesso Jon Snow. Il finale della serie aveva talmente deluso i fan da fargli esprimere il loro dissenso attraverso la nostra piattaforma – che è aperta, accessibile, gratuita per tutti. Viva la libertà d’espressione, quindi, dico io. Le petizioni su change.org sono definite nell’articolo come “inutili”, addirittura delle “sciagure”: la firma digitale non costituirebbe che un vezzo per attivisti “da divano”, che cliccano solo per togliersi uno sfizio. Dall’attività che registriamo quotidianamente, però, sembrerebbe che i nostri 9 milioni di utenti in Italia siano tutt’altro che meri “spettatori” di un film. Sono al contrario persone che scelgono consapevolmente di incidere sulla realtà per riscrivere una trama importante: quella della loro vita. Penso a Luigi Galvano, diciasettenne che l’anno scorso ha contribuito a scongiurare il licenziamento di 300 dipendenti da parte di FedEx lanciando un appello sul sito; o Franco Arnaboldi, che da 40 anni lotta per ottenere un indennizzo per esproprio illecito da parte dello stato – senza la petizione, come afferma lui stesso, non sappiamo dove sarebbe adesso. Penso ai sostenitori della proposta di introdurre il reato di revenge porn nel nostro ordinamento, battaglia vicina alla vittoria in Parlamento; o a Carlo, giovane disabile al quale il ministro Bussetti ha risposto sulla richiesta di rendere disponibili gli ebook per chi non può sfogliare testi cartacei; Penso infine agli oltre 170 mila utenti che lottano contro l’inquinamento nel quadrilatero industriale di Siracusa. Credo che nessuno di questi cittadini consideri le petizioni su change.org “inutili”. Affermo invece con decisione che firmare abbia costituito per tutti loro un’opportunità. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: se fare attivismo online fosse davvero diventato il nuovo modo per partecipare in maniera efficace alla vita democratica, che male ci sarebbe? Certo, a change.org la firma di “uno” varrà sempre “uno”. Ma se 1 per 100 fa 100, e 100 per 100 fa 10.000, singole voci diventano un coro difficile da ignorare. Per concludere, non so se il buco nero verrà intitolato a Chris Cornell, se Danny DeVito otterrà il ruolo di Wolverine in X-Men o se gli autori di Avengers cambieranno idea su Iron Man come chiedono alcuni utenti. Quel che è certo è che quando questi si uniscono contro un “nemico” comune, non c’è Re della Notte che tenga – sia esso incarnato in un’ingiustizia, un diritto leso o una legge mancante. Perciò, per scrivere un finale migliore per tutti, non mi resta che chiedere ai lettori: e voi, cosa cambierete?

Stephanie Brancaforte, direttrice in Italia di Change.org


   

Al direttore - Il deputato del Pd Dario Parrini dice che “fuori dal Pd non c’è salvezza per i lib-dem”. Ancora una volta la parte “centrista e moderata” di quel partito si autoelegge unica rappresentante non solo del mondo riformista, che pure storicamente gli apparterrebbe, ma anche di quello liberal-democratico, che invece con loro non c’entra niente. Occorre quindi ricordare ai “centristi e moderati” del Pd che i lib-dem esistono già. Ed esisterebbero anche se non ci fosse un partito. Esistono perché esiste il liberalismo, quale cultura politica autonoma e indipendente, presente in tutte le moderne democrazie liberali, distinta dai socialisti e dai popolari, dalla sinistra e dalla destra. Esistono in varie forme e hanno propri riferimenti politici: i liberali dell’Alde in Europa e +Europa in Italia. Sostenere che la rappresentanza liberale possa essere ridotta a una corrente minoritaria del Pd è quindi una forzatura fuori dalla realtà e forse anche un po’ provincialotta. Provate a dirlo in Europa che l’Alde sarebbe solo una componente interna del Pse. Che poi i lib-dem riescano a trovare o meno la loro salvezza è un altro discorso, ma riguarda noi, non certo i “centristi e moderati” di un altro partito. Qualcuno forse farebbe bene a ripassare Bobbio: “Discutono del loro destino senza capire che dipende dalla loro natura. Risolvano il problema della loro natura, e avranno risolto il loro destino”.

Juri Marini


        

Nell’articolo dal titolo “La fashion week degli studi legali”, pubblicato ieri sul Foglio, è stato erroneamente indicato Angelino Alfano, Of counsel dello studio Bonelli Erede, come consulente dello studio Chiomenti. Ci scusiamo con i lettori e gli interessati.

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