Mani pulite ispira un golpe giudiziario. Tre indizi sul piano B del governo

Al direttore - Bolsonaro o cialtronaro?

Luca Marini

 

Il Brasile, con Bolsonaro e il suo ministro cialtronaro della Giustizia, accusato di aver messo in campo un golpe giudiziario contro Lula, ha scelto di importare il modello Mani pulite e ha dimostrato che se applichi alla politica il modello Tangentopoli – abuso di carcerazione preventiva, processo mediatico, mediatizzazione delle indagini – alla fine non puoi che ritrovarti di fronte allo stesso fenomeno con cui l’Italia fa i conti ormai da decenni: sistematici e costanti tentativi di mettere in scena golpe giudiziari. Anni fa, Sergio Moro, ministro della Giustizia di Bolsonaro, discepolo di Antonio Di Pietro, ammiratore di Piercamillo Davigo, disse di essere un devoto di Mani pulite. “La cosiddetta Operazione mani pulite ha costituito un momento straordinario nella storia contemporanea del Giudiziario”. Oggi abbiamo capito perché.

 


 

Al direttore - La vicenda dei minibot evidenzia sempre più un comportamento nella maggioranza di questo tipo: si propongono delle stupidaggini come nel caso appunto di questi Bot; poi accade che molti le rilevino e si uniscano nelle critiche; la risposta a costoro è il singolare invito a risolvere il problema con loro proposte. Queste non mancano, ma perché dovrebbero essere espressione di un dovere che sorge automaticamente a carico di chi giustamente contesta abnormità tecniche, economiche e giuridiche? Quasi che si trattasse di un onere da sostenere per aver disvelato l’inutilità e la dannosità di alcune proposte. Comunque, sarebbe ora, dopo che sull’introduzione di questi Bot si è evitato (almeno per ora) che dalla mozione si passasse a uno specifico emendamento, che l’argomento venisse definitivamente accantonato, se si vuole evitare che all’estero ma pure in Italia, data l’assurdità della proposta, si pensi a ben altro, a un’operazione cioè che precostituisca le riserve, con una nuova moneta, per l’eventualità che si decida non si sa quando di uscire dall’euro. Insomma, poiché non è umanamente concepibile una tale pervicacia concentrata in uno strumento così sballato, allora, poiché si debbono ritenere tutti pienamente in grado di intendere e di volere, bisogna immaginare che le finalità siano altre: diversamente, si abbandonerebbe immediatamente l’iniziativa e non se ne parlerebbe più. Dobbiamo attendere un tale esito o non è realistico conoscendo i soggetti in campo? Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

Benedetto Della Vedova ieri ha notato che l’idea di avere un Bagnai ministro, sommata all’idea di avere un minibot, sommata all’idea di avere un gruppo in Europa con Farage, da parte del M5s sono tre indizi che ci ricordano che c’è un solo vero filo conduttore che lega le mosse del governo e soprattutto dei partiti di maggioranza: quello del piano B, dell’uscita dell’Italia dall’euro e dalla Ue.

 


 

Al direttore - La lettura dell’articolo di ieri (“Toghe senza controlli”) ci ha sorpresi e turbati. Conosciamo il punto di vista del Suo giornale sui temi della giustizia, ispirato a una linea che rifugge dalla cultura del sospetto, che è lontana dai cliché e dalle semplificazioni, attenta invece all’analisi dei fatti e al confronto delle opinioni, alle garanzie e ai diritti dei cittadini. Ebbene, questa linea, che il Suo giornale definisce “sottile”, e che tale abitualmente mostra di essere se confrontata con non poca altra stampa, non è dato invece di riconoscere nelle affermazioni, del tutto gratuite, secondo cui “Nei bassifondi della giustizia amministrativa la collusione con la politica è la regola. (…) Da quelle parti la terzietà del giudice è una miserabile utopia da strappare e buttare in un cestino. (…) In quegli uffici un processo si trasforma in un’asta dove tra i due contendenti vince chi paga di più, chi è più abile a corrompere”. Simili affermazioni – messe in bocca a un misterioso professore Carabillò – sono destinate ad alimentare il peggiore qualunquismo giudiziario, a riversare fango su di una intera categoria di magistrati che nella stragrande maggioranza dei casi fanno onestamente il loro lavoro, per il quale non devono ringraziare nessun potentato, politico o economico che sia. Il tema degli incarichi extragiudiziari e quello dei controlli sull’attività dei giudici, che l’articolo con la complicità sempre del professore Carabillò mette in un unico calderone ricolmo di politicizzazione e di corruzione, meriterebbero un’analisi assai più meditata, e appena più “sottile”, come peraltro è di solito nello stile del Foglio, alla quale non intendiamo sottrarci, come dimostrano i nostri interventi al recente congresso nazionale dei Magistrati amministrativi italiani, che si è svolto il 7 e l’8 giugno e che potete trovare sul sito della Giustizia amministrativa. Purché sia chiaro che questi, come altri, temi di dibattito non possono essere usati come una clava per screditare l’intera magistratura amministrativa, senza della quale a essere meno tutelati non sarebbero i più forti ma semmai i più deboli, quelli con meno danari e maggiori problemi. Per loro, in primo luogo, la giustizia amministrativa non è un cuore di tenebra ma una fonte di sicurezza.

I presidenti delle Associazioni dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato: Mattei, Simonetti, Toschei

Risponde Giuseppe Sottile. Che la stragrande maggioranza dei magistrati amministrativi sia composta da persone che fanno seriamente e onestamente il proprio lavoro non c’è dubbio. I dubbi erano riferiti all’eccessivo numero di incarichi extragiudiziari che il potere politico assegna alla magistratura amministrativa, spesso per compiacerla; e all’assoluta mancanza di controlli nel caso in cui un processo – capita, signori presidenti – dovesse per una scellerata ipotesi trasformarsi in un’asta in cui vince il maggiore offerente. Il fatto che questi nodi siano oggetto di un dibattito interno non può che essere di grande conforto.

 


 

Al direttore - Interessante e acuta l’analisi di Massimo Teodori sul Foglio. Condivido la valutazione sul bipartitismo poco compatibile col Dna italiano e pure la necessità che il campo alternativo alla destra leghista e al populismo si articoli in maniera plurale non attraverso formazioni “satelliti” del Pd, ma con aree riconoscibili per cultura politica e autonome. Meno convincente mi sembra invece Teodori laddove immagina che la questione sia risolvibile con la nascita di un partito liberal-democratico capace di interpretare gli elettori che “guardano alla società aperta” contro ogni sovranismo. Il punto è che questi elettori votano già per il Pd e il centrosinistra. La competizione con la destra si può vincere con proposte capaci di riconquistare gli altri elettori, quelli che guardano alla “società aperta e globale” con diffidenza e scetticismo, anche perché fino a ora ne hanno toccato con mano solamente le ricadute negative sulla propria condizione di vita: fasce sociali con redditi bassi, ceto medio, cittadini delle aree interne, montane e rurali. Se un’area manca oggi all’appello delle forze democratiche capaci di riconquistare il consenso della maggioranza dei cittadini, contro la destra sovranista e il populismo, si tratta di questa. Con tutte le innovazioni che i tempi attuali impongono, ma con questa ispirazione culturale e politica. Mi permetto infine, avendola vissuta direttamente, una precisazione sulla vicenda di Scelta Civica, che Teodori liquida in maniera troppo sbrigativa.  Essa fu un tentativo di colmare un vuoto di rappresentanza già evidente in quegli anni. E fu promosso proprio da esponenti politici e civili delle due culture: quella del popolarismo di ispirazione cristiana e quella di matrice liberal-democratica. Detto per inciso, non furono certo i primi a decidere ad un certo punto di entrare nel Pd. Occorrerebbe in ogni caso indagare un poco più a fondo quella esperienza, che personalmente resto orgoglioso di aver concorso a far nascere, con le sue luci e le sue ombre. 

Lorenzo Dellai

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