Giovanni Tria (foto LaPresse)

I numeri dicono che non serve cambiare la manovra ma il governo

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - I 5 stelle: Salvini chiarisca, vogliamo sapere con chi governa!

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Caro Cerasa, qualche giorno fa sono usciti i dati Istat sull’occupazione in Italia, anticipati dai dati Inps di qualche settimana prima che evidenziavano un vero e proprio boom di cessazioni per i contratti a termine e di somministrazione. Questi dati hanno un grande valore: rappresentano “conoscenza” e ci aiutano a comprendere lo stato di salute del lavoro in Italia. Ma una volta che queste informazioni sono conosciute, è necessario poi interpretarle e utilizzarle per cambiare le cose in meglio. Solo così il valore dei dati darà il risultato atteso, ovvero l’azione. Se all’analisi seguirà l’azione immediata tesa a modificare rapidamente ciò che i dati evidenziano, allora ne avremo capito il vero valore. Altrimenti rimangono solo un mero valore statistico senza alcuna utilità.

Andrea Zirilli

 

Ci si può girare attorno quanto si vuole e si possono fare tutte le modifiche del mondo alla manovra, ma la verità che forse anche Salvini e Di Maio e Conte iniziano a percepire è che l’unica possibilità che ha l’Italia di tornare a essere un paese affidabile è legata allo stralcio del contratto di governo e non solo allo stralcio della manovra. E per capire quanto la situazione sia diventata grave oltre che seria sarebbe sufficiente chiedere al Mef perché lo scorso 13 dicembre il Tesoro abbia cancellato le aste di titoli a medio-lungo termine previste per quel giorno. La risposta ufficiale è “l’ampia disponibilità di cassa e le ridotte esigenze di finanziamento”. La verità difficile da ammettere è che la crisi di fiducia vissuta dall’Italia ha contribuito a far tornare possibile quello che da anni sembrava essere diventato impossibile: la difficoltà ad avere delle aste di titoli di stato prive di rischi. E’ ora di darsi una svegliata.

 

Al direttore - Un gigantesco incendio nell’impianto di trattamento rifiuti dell’Ama. Questa volta non siamo nella terra dei fuochi e nemmeno in qualche capannone dell’hinterland milanese. Le cause si vedranno, ma intanto non si può che constatare il fallimento dei vari piani, protocolli, inasprimento delle pene messi in campo fino ad ora per prevenire il dilagare degli incendi. E’ stato invece onesto il comandante dei carabinieri forestali che pochi giorni fa ha dichiarato: “I rifiuti bruciano tutti e dappertutto. Bruciano i depositi privati e e quelli pubblici. I rifiuti urbani e quali speciali. Non si vede una linea che porta alla criminalità, è più un problema di sistema, di impianti che mancano”. Mettendo fine così all’uso come capro espiatorio delle ecomafie ridotte a giustificazione per tutto. Anche l’impianto andato a fuoco rientra in questa categoria: riceve i rifiuti urbani tali e quali provenienti dalla raccolta, li separa e li stabilizza con una resa modesta, ma questo consente di considerare i rifiuti che escono non più come rifiuti urbani, ma rifiuti speciali e quindi spedibili all’estero e nelle altre regioni italiane. Sembra un gioco di parole ma è proprio così: 170 camion al giorno prendono la strada del nord Italia carichi delle bucce di patata dei romani con costi altissimi e impatto ambientale ben superiore a qualsiasi impianto, inceneritori compresi. L’impianto andato a fuoco è molto vecchio e il sito funziona anche come deposito temporaneo, vista l’assenza nella Capitale di ogni altro impianto, compresi quelli di riciclaggio o di recupero energetico che rappresenterebbe lo sbocco preferenziale per questo tipo di impianti. Quindi un sito potenzialmente pericoloso, di cui da tempo i cittadini là residenti chiedono la chiusura. L’incendio segna probabilmente la fine delle illusioni dell’amministrazione capitolina su irrealistiche strategie per risolvere il problema rifiuti. Ma anche il presidente della regione dovrebbe farsi qualche domanda, visto che fino a oggi l’unico gesto concreto è stato la chiusura di uno dei due termocombustori presenti nel Lazio. Anche la raccolta differenziata va a rilento e produce materiali di bassa qualità, difficilmente riciclabili. L’assessore all’Ambiente si presentò chiedendo di chiamare i rifiuti con un altro nome: “postmateriali”, nella speranza che questa neolingua facesse scomparire il problema. Proprio sulla questione rifiuti Roma segna ormai la sua completa appartenenza al meridione d’Italia. Tutto il ciclo è in crisi. Raccolta e spazzamento insufficienti, un’azienda pubblica, l’Ama, nota per la scarsissima produttività e l’alto assenteismo. E soprattutto la completa mancanza di impianti per trattare in tutti i modi possibili i rifiuti. In compenso tariffe alte. Questi dati sono risultati proprio ieri evidenti nell’annuale rapporto di Ispra, l’organo tecnico del ministero dell’Ambiente, in cui Roma ha meritato alcune speciali negative menzioni. L’impianto andato a fuoco dovrà ora restare chiuso per chissà quanto tempo. Un’altra emergenza che arriva proprio alla viglia di Natale che sottoporrà la capitale a un’altra priva durissima. Dove mettere i rifiuti raccolti. In compenso Virginia Raggi, d’intesa con il ministro dell’Ambiente, ha annunciato pochi giorni fa un provvedimento importantissimo: rendere il comune di Roma “plastic free”. Le biro degli impiegati saranno sostituite da cannucce di legno con relativi calamai. Saranno messi al bando computer, stampanti e telefoni. Gli impiegati dovranno presentarsi vestiti da sole fibre naturali. Vietati gli occhiali, le automobili e le motociclette dei Vigili urbani. Quanto prima torneremo con i piedi per terra e la smetteremo di giocare con le parole, la neolingua e gli pseudoconcetti tanto più, forse, sapremo guardare in faccia la realtà. Che dice una cosa chiarissima. L’economia circolare ha bisogno di impianti, di filiere industriali e di tecnologie. Tutto il resto è solo fumo. Compreso quello degli incendi.

Chicco Testa

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