Meno 304 miliardi: perché il populismo è contro il popolo

Al direttore - Il governo Conte (si fa per dire) è isolato in Europa. Ciò dimostra che la solitudine non è uno stato, ma un continente.

Michele Magno

 

L’Europa si salva non se chiude gli occhi di fronte ai capricci dell’Italia, ma se prova a fare aprire gli occhi agli italiani ricordando a tutti che le regole si possono cambiare, ma fino a quando ci sono vanno rispettate.

 


 

Al direttore - Travaglio condannato a risarcire babbo Renzi contrattacca scrivendo di giornalisti attaccati dai poteri forti. Tra i poteri forti non inserisce i magistrati che con querele e cause civili si rivolgono ai loro pari per colpire chi osa criticarli.

Frank Cimini

 


 

Al direttore - Orbán. Putin. Le Pen. Farage. Dimmi che alleati hai e ti dirò chi sei.

Marco Mortini

 


 

Al direttore - Quello che i populisti non capiscono è che ciò che loro chiamano in modo freddo “spread” non è solo un differenziale di rendimenti dei titoli decennali italiani con quelli tedeschi. Lo spread, purtroppo per noi, è tra le nostre politiche e la realtà.

Luca Meffi

Dal 4 marzo a oggi, scrive il Sole, il valore di mercato di obbligazioni e azioni quotate a Piazza Affari è diminuito di 198 miliardi di euro. Se si aggiungono i titoli di stato detenuti da Bankitalia e da investitori esteri il passivo arriva a 304,7 miliardi. Il primo problema del populismo è che è contro il suo stesso popolo.

 


 

Al direttore - Gli smottamenti della storia sono sempre più profondi delle stagioni politiche, dei leader e dei partiti politici che li intercettano e ne manipolano la superficie. E vanno setacciati con attenzione per cogliere le articolazioni dei processi in atto, e immaginare le risposte più efficaci. Per venire a noi, è vero – come ha detto domenica scorsa un ex primo ministro – che le difficoltà dei partiti socialisti, la Brexit e Trump non sono figli del caratteraccio di un toscano. Ma, allo stesso modo, è sbagliato leggere la stagione che si è aperta il 4 marzo solo come il frutto della tempesta internazionale. Come ha scritto ieri Slobodian sul New York Times, l’ondata di destra che sta travolgendo l’occidente non solo non è completamente contro la globalizzazione (vuole la libertà per merci e flussi finanziari, anche se non per le persone, e vuole il commercio internazionale come arena di scontro tra le nazioni), ma è anche fiscalmente iperconservativa (tranne Trump). AfD chiede la galera per chi aumenta la spesa pubblica, Bolsonaro ritorna ai Chicago Boys, e altri sovranisti (gli austriaci, per esempio) reagiscono molto male alla manovra italiana. In questo quadro gli unici populisti autarchici e parakeynesiani sono gli italiani. L’unico punto in comune con il populismo internazionale sembra essere la lotta all’ondata migratoria nata dalla primavera araba. Bisogna allora cercare dei traumi storici schiettamente italiani, capaci di spiegare il sentire comune dei nostri sovranisti e il loro impatto sull’opinione pubblica. Indiziate principali sono a mio avviso le crisi politiche, prima ancora che economiche e finanziarie, del ’92-’93 e del 2011-2012, se è vero che le bandiere della repubblica gialloverde sono il giustizialismo strabico e privo di qualsiasi etica figlio di Tangentopoli e la risposta irresponsabile alle riforme delle pensioni di Amato e Fornero, ai prelievi forzosi di Amato, all’austerity imposta da Ue e spread nella forma di Mario Monti. In questo senso l’intera strategia del governo si presenta come una sorta di macchina del tempo che evoca come fantasmi quei passaggi traumatici, creando un caso quasi unico nella storia economica dell’occidente di instabilità finanziaria autoindotta, in un momento di espansione del ciclo economico, e in assenza di gravi crisi sui mercati finanziari. Quello che affermo, in definitiva, è che i veri nemici di questo governo non sono il Jobs Act, i soldi alle banche, la buona scuola, e le altre politiche del governo Pd. Il populismo internazionale per Salvini e Di Maio è solo cornice, l’allucinazione storica nostrana è tenere sempre ben vivi gli spettri del ’92 e del 2011. Se questa lunga premessa suona verosimile, difendere colpo su colpo le buone politiche fatte o cercare ispirazione in Macron, Corbyn o nei verdi bavaresi lascia il tempo che trova. L’opposizione deve riprendere la strada maestra delle riforme, affrontare di petto il tabù del 4 dicembre 2016, e riprendere le fila di un progetto che rispondeva insieme alle due crisi di sistema con un disegno globale di modernizzazione. La sconfitta del 4 marzo ha reso, ovviamente, il centrosinistra afono e il solo citare il 4 dicembre può apparire una provocazione. Ma se il governo gialloverde mantiene le lancette della politica italiana ferme sul passato, l’opposizione ha il dovere di provare a immaginare risposte aggiornate a quei temi, che continuano a essere il banco di prova per qualunque riformismo. Se si limiterà ad aspettare passivamente e cinicamente i fallimenti altrui, se e quando arriveranno, nella storia entreranno in campo altri protagonisti.

Federico Velardi

 


 

Al direttore - Come sanno i suoi lettori, a partire dal 2010, sono in corso a Milano importanti trasformazioni urbane, che hanno visto tornare la città e l’Italia al centro del dibattito architettonico. Tuttavia, quasi tutti questi interventi su scala territoriale vengono sistematicamente firmati da noti architetti appartenenti alla scena internazionale, in prevalenza stranieri. Molti giovani colleghi mi hanno fatto notare che questo sistema di investimenti abbia, di fatto, escluso gli studi emergenti dal disegno della città che verrà e, personalmente, penso che questo fenomeno sia indissolubilmente legato all’affermazione mediatica della figura dell’archistar. Essendo il più giovane consigliere dell’Ordine degli architetti, penso sia mio dovere esprimermi sulla questione per difendere una professione che, con la crisi del 2008, è stata profondamente colpita e che, nonostante i cenni di riattivazione dell’economia, non vada nella direzione di aiutare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Per questi motivi spero potrà pubblicare questa mia lettera sul Suo giornale.

Alberto Bortolotti

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