Il decreto dignità spiegato dai lavoratori ora a spasso. Il Cnel e il dopo Cdp

Le lettere del 25 luglio al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ha sollevato un vespaio nel partito e provocato una crisi di nervi nel gruppo dirigente l’emendamento Dem, soppressivo della norma contenuta nel decreto (in)degnità che aumenta del 50 per cento l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento ingiustificato di un lavoratore assunto con il contratto a tutele crescenti. E’ bastato che il ministro gridasse allo scandalo e li accusasse di non stare dalla parte dei lavoratori che sono cominciati i mal di pancia. Tanto che quell’emendamento sparirà dalla circolazione. Questo episodio sta a provare che il Pd è privo di anticorpi nei confronti del virus della demagogia dei cinque stelle’. E’ sufficiente che questi ultimi la sparino grossa per mettere in agitazione i cromosomi Dem. Il bello è che in apertura dei lavori della direzione Maurizio Martina aveva definito il cosiddetto decreto dignità come un decreto disoccupazione annunciando una posizione di critica radicale al testo da parte del Pd… “Contrordine, compagni!’’. Ma si sono chiesti i Dem, perché il decreto provoca disoccupazione? Nelle previsioni sugli effetti e soprattutto nel comma 2 dell’articolo 14 la copertura finanziaria per le minori entrate in conseguenza della perdita di posti di lavoro e quindi di gettito fiscale e contributivo non riguarda solo le norme sui contratti a termine, ma anche quella che incrementa l’indennità risarcitoria nel caso di licenziamento ritenuto ingiustificato. E’ così difficile spiegare a vari Cuperlo, Damiano, Orlando e Cirinnà (ai grillini sarebbe inutile) che per avere una migliore tutela, in caso di recesso, i lavoratori dovrebbero essere prima assunti?

Giuliano Cazzola

  

Basterebbe anche meno. Basterebbe vedere cosa è successo negli ultimi giorni a Benevento dove grazie al decreto dignità una ventina di stagionali storici tra i 40 e i 50 anni con contratti di somministrazione avendo raggiunto il nuovo limite concesso ai contratti a tempo determinato (da 36 si è passato a 24 mesi) non sono stati confermati dalla Nestlè che con la vecchia legge li avrebbe invece confermati. Combattere la flessibilità non significa combattere la precarietà: significa combattere l’occupazione.


  

Al direttore - E’ vero. Il vecchio detto di Ennio Flaiano “la situazione è grave ma non è seria” a proposito dell’Italia non vale più. Il Corriere della Sera ha rivelato che il neo amministratore delegato della Cdp, Fabrizio Palermo, un manager dal curriculum impeccabile, ha promesso fedeltà al contratto di programma della maggioranza di governo. Un fatto senza precedenti. Come se il ceo della Deutsche Bank giurasse fedeltà al programma della Groko prima di essere nominato. Non risulta che la notizia sia stata smentita, né ufficialmente né ufficiosamente. E dunque il capo della Cassa, la cassaforte ‎del paese, sembra prigioniero di due obblighi: verso la Cassa è i suoi interessi e verso il Contratto che lega la maggioranza. Seriamente grave.

Marco Cecchini

  

Se Palermo ha letto il programma di Tria, nessun problema.


  

Al direttore - L’intervento del ministro per i rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta, Riccardo Fraccaro, pubblicato sul Foglio il 13 maggio scorso dal titolo “La democrazia diretta porterà l’Italia tra i paesi più avanzati”, apre interessanti scenari sull’evoluzione democratica del nostro paese, soprattutto perché si punta a ribaltare il rapporto tra la politica e i cittadini, sulla scia di quanto emerso dalla volontà popolare nell’ultima tornata elettorale. L’affermazione della democrazia diretta si sostanzia nel declino della democrazia rappresentativa e dovrebbe essere chiaro a tutti che la democrazia diretta non può contrapporsi e tantomeno sovrapporsi alla democrazia rappresentativa, poiché significherebbe esautorare il Parlamento del potere legislativo attribuitogli dalla Carta costituzionale, se non addirittura degenerare in un’autarchia politica dalle conseguenze tanto imprevedibili, quanto funeste. Il modello presentato punta invece a una “democrazia integrale”, dove le forme classiche della rappresentanza si sposano con l’introduzione di nuovi strumenti di partecipazione collettiva. Ma se si osserva bene in filigrana riaffiora uno dei fantasmi che ha caratterizzato il dibattito politico degli ultimi anni e che ha assestato un colpo durissimo alla democrazia rappresentativa: il processo di disintermediazione delle forze sociali di renziana memoria, culminato poi nel referendum costituzionale del 2016 che chiedeva tra l’altro l’abolizione del Cnel. Come noto, i cittadini bocciarono il quesito referendario e oggi il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro, sotto la guida del professor Tiziano Treu, è tornato a brillare, eliminando sprechi e prebende che nel recente passato lo avevano messo sul banco degli imputati come un “carrozzone inutile e costoso”, ma anche costruendo un incisivo programma di rilancio che punta proprio sulla partecipazione dei cittadini e sull’ascolto della società civile attraverso lo strumento delle consultazioni pubbliche, come già avviene in Europa. Ma non c’è pace per il Cnel, sede costituzionale della democrazia rappresentativa dove siedono 38 categorie produttive dei lavoratori, delle imprese, delle libere professioni e del terzo settore per un bacino di oltre 15 milioni di associati. Il ministro Fraccaro ha rispolverato l’idea di abolire il Cnel, giudicato “inefficace” rispetto alle funzioni di partecipazione politica delle forze sociali attribuitegli dai padri costituenti. Ma proprio la sua crisi ne costituisce la condizione prima di una sua possibile nuova funzione. Se una colpa c’è stata è quella di non averlo fatto prima, ma errore ancora più grave sarebbe rinunciarci adesso. Il Cnel può diventare la sede di confronto tra i tradizionali mondi della rappresentanza degli interessi e i nuovi modelli della domanda sociale, che spesso si manifestano in forme nuove, dirette, disperse, episodiche, a volte quasi invisibili.

Giovanni Ferradini

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