La post verità nasce se si distrugge il principio di realtà. Lettera dalla Rai

Al direttore - Tria: "buono stato di salute economia". Ora il cambiamento.

Giuseppe De Filippi

  


  

Al direttore - Ho letto la sua denuncia sulle fake news che imperversano e sulla distanza sempre più ampia che corre tra la realtà e la sua percezione. E’ in buona compagnia, caro Cerasa, se la cosa la conforta. Anche Tocqueville racconta come la Rivoluzione Francese sia scaturita a suo tempo da un leggero miglioramento delle condizioni economiche dei mesi immediatamente precedenti. Fu quel piccolo allentarsi della morsa della miseria a scatenare le energie vitali della ribellione. (Se poi gli eventi di quel lontano 1789 siano stati tutti così propizi o invece più discutibili e controversi è materia ancora oggi di riflessione. Valga per tutti la battuta di Zou-en-lai: “La Rivoluzione francese? E’ troppo presto per esprimere un giudizio”). Quello che però mi colpisce in questo divario tra i fatti e il loro racconto è che noi, a furia di correre dietro alle fantasie del populismo, abbiamo completamente perduto il senso della misura. Eventi tragici come la morte di tanti poveri cristi in alto mare ci sembrano solo un piccolo disturbo. E quisquilie puramente simboliche come la lotta contro la “casta” assurgono a paradigmi di una nuova civiltà. E’ evidente che in tutto questo c’è qualcosa che non torna. Non esiste più alcuna proporzione tra gli eventi della politica e la loro narrazione. L’eccesso di enfasi con cui salutiamo ogni minima variazione che avviene sullo scacchiere del racconto politico toglie qualcosa alla sua veridicità. Quella del 1789 fu per l’appunto una rivoluzione, forse addirittura “la” Rivoluzione. Noi battezziamo come epocali (il ” cambiamento”, un’altra rivoluzione, la Terza Repubblica, e chi più ne ha più ne metta) piccole schermaglie che servono solo a coprire il vuoto di esperienza e competenza di chi le mette in opera. La nostra retorica non ha più nessun rapporto con gli eventi da cui dovrebbe prendere spunto. Siamo pur sempre il paese di Machiavelli, l’inventore della scienza politica. Pensare di essere finiti ora nelle mani di alchimisti, affabulatori e venditori di sciroppo, beh, questo mette un po’ di paura addosso. E temo che in questo caso non si tratti solo di percezione.

Marco Follini

  

La post verità nasce quando si distrugge il principio di realtà. E quando un paese sceglie di considerare l’agenda del moralismo più importante dell’agenda del riformismo quel paese non può che trasformare la fuffa in una priorità del paese.

  


  

Al direttore - Nel tempo delle cupe, ossessive, rimbombanti minacce, e della metamorfosi stravolta del paese del sole mio nel paese delle ombre lunghe, è curioso come molti fingano ancora di non notare come si stia giocando un’unica vera partita, questa sì global e glocal: italiana, europea, mondiale. Una partita politica. L’“emergenza migranti”, da noi come in Germania (dove il crollo degli arrivi è di circa l’80 per cento), ne è uno degli strumenti. Liquidare una intera, e globale, classe dirigente, intellettuale (e intellettualista, sia pure), governativa (e ceto sociale minoritario, sia pure). E’ un colpo di mano per via elettorale: il popolo vs l’élite – Salvini via Steve Bannon –, la sagra vs il salotto, Milano Marittima vs Capalbio, la Monaco dell’Oktoberfest vs Francoforte. Banalità retoricamente funzionanti e funzionali. Soprattutto corsi e ricorsi storici. Nella sua “Tecnica del colpo di stato” (1931, Grasset; 1948, Bompiani) Malaparte scriveva: “La storia politica di questi ultimi dieci anni è la storia della lotta fra i difensori del principio della libertà e della democrazia, cioè dello Stato parlamentare, e i suoi avversari. In quasi tutti i paesi, accanto ai partiti che si dichiarano difensori dello Stato parlamentare, e partigiani di una politica interna d’equilibrio, cioè liberale e democratica, vi sono i partiti che pongono il problema dello Stato sul terreno rivoluzionario. Sono questi i partiti di estrema destra e di estrema sinistra, i catilinari, cioè i fascisti e i comunisti”. Nel paese delle ombre lunghe è il tempo delle catilinarie?

Luca Rigoni

  


  

Al direttore - Siamo arrivati. Il passaggio delle consegne è quanto di più semplice si possa avere. Solo Sergio Rizzo (CorSera) non lo sa e calcia non male, peggio. Noi usciamo, la password si spegne, il tesserino si smagnetizza, non è che usciamo, il fatto è che non entreremo più. Non so se qualcuno, qualche collega consigliere, pensa di rientrare, non so da quale porta e se ha lasciato la finestra aperta. Forse la stessa finestra da cui nel corso di questi anni uscivano gli spifferi. Va bene, ormai. Penso che di noi non si troverà traccia e che anche la lettura di questi tre anni di verbali non costituirà materia di studio. E’ tutto così semplice, così chiaro, così fragile. Pare che il prossimo 11 luglio Camera e Senato eleggeranno i quattro membri che uniti ai due nominati dal Governo e all’eletto tra i 15 candidati dei dipendenti, andranno a costituire il prossimo, nuovo nel senso, consiglio di amministrazione della Rai. Segnalo che su 15 sono tre le signore: Roberta Emi (Rai Gold), Alessandra Paradisi (vicedirettore), Irma Bono (Gruppo pari opportunità). Si compie così tra poco la legge che il 26 gennaio 2016 proprio Matteo Renzi volle. Tutto il potere al dg, un uomo solo al comando a patto che i nuovi eletti gli facciano ala e non si incaponiscano come i miei colleghi che fecero a sportellate con Antonio Campo Dall’Orto che aveva capito bene. Era Renzi che si era spiegato poco. Più che male, poco. I suoi picadores hanno dato prova di tenacia più che d’intelligenza. Hanno lasciato che l’esprit lasciasse il campo allo Spirito Santo e il progetto sfumò in corso d’opera. Pare anche che nessuno se ne sia accorto: fu strozzato nella culla il piano dell’informazione a cui aveva lavorato sodo Carlo Verdelli che fu lasciato solo e a cui non bastarono né le ragioni, né il trattamento, e tanto meno quel tono elegante di signore che sa tornarsene là da dove è venuto. Il cda respinse dopo che una manina di sicario aveva regalato “il piano” per l’anteprima ad un noto settimanale di un gruppo editoriale. L’Espresso. Una ferita lacera. Eravamo sotto il sole, la traversata era scomposta e il piano editoriale che disponeva la riduzione delle testate giornalistiche, la trasversalità nella gestione delle notizie, lo spacchettamento degli approfondimenti, il flusso, le piattaforme, la digitalizzazione, il decentramento logistico, la revisione dei processi ma anche degli strumenti produttivi, e così via dicendo, fu trattato come uno sgarro. La restaurazione di solito esagera, già che c’è la prende larga, raschia. Il tempo che è volato lascia chissà che cosa nella bocca di ognuno di noi. Baruffe, opinioni, intemperanze, prefigurazioni. Il grande slam di una partita senza posta. Tredici prese di cui non si è capito né il come, né il perché. La Maginot sembrava fatta per crollare. Il 4 dicembre 2016 con il referendum crollò. Avremmo potuto volare alti, anzi era così congegnata che abbiamo saputo di risultati che venivano a pioggia, giorno dietro giorno. Numeri tali che per smentirli si mentiva, spudoratamente e a mentire non era chi si opponeva ma alcuni zelanti uomini di governo. Cose contro le quali si poteva scuotere la testa, cosa che facevo, che facemmo, ma sembrò un tic. Tutto bene ma non credo che finisca bene. Ieri abbiamo visto le prime esternazioni. Beppe Grillo proprietario del 50 per cento della compagine governativa ha messo in vendita due reti e sterilizzato la terza rete. Dice Grillo che il futuro va a gettoni. Quando alla Coop compri la pizza surgelata compri anche il gettone perché a sera i superstiti si nutrano con le barzellette, le ballerine, e l’eroismo dell’asino parlante. Gratis una rete senza pubblicità. Grillo non lo dice ma lì si spiegherà che Cristo è morto dal sonno. Di Maio, che invece dice di vedere più lontano, pensa che nel futuro Don Matteo lo daranno su Netflix, non ho capito se omaggio o come bonus per aver annuito con la testa penzoloni nel vuoto. Visti da qui, visti ora, uditi i primi vagiti del futuro prossimo mi vien da credere che potrebbe essere la natura a ribellarsi: umana, vegetale, tecnologica, biologica, digitale. Spunteranno spontanee le domande: ma voi chi vi credete d’essere? Chissà.

Guelfo Guelfi, consigliere d’amministrazione della Rai

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