lettere rubate

Gli otto uomini di Richard Wright, piccolo classico della letteratura americana  

Annalena Benini

In una nuova traduzione tutta la potenza dello scrittore americano e della sua lingua addolorata, arrabbiata e perfino rassegnata

E pur di sventare l’attacco razziale che colpiva le radici stesse della mia vita avrei accolto di buon grado ogni tipo di esistenza che non fosse quella in cui mi trovavo. Avrei accettato di vivere in un sistema di oppressione feudale, non perché preferissi il feudalesimo, ma perché sentivo dentro di me che nel feudalesimo si facesse almeno impiego degli esse‐ ri umani, che l’uomo fosse definito, nel suo rango e nel‐ la sua funzione sociale. Avrei acconsentito a vivere sotto il più rigido modello di dittatura, perché credevo che la dittatura, persino quella, per quanto degradante, definis‐se l’impiego degli esseri umani.
Richard Wright, “Otto uomini” 
(Racconti edizioni)


 

Richard Wright è l’autore, fra gli altri, di un romanzo piuttosto celebre e autobiografico, “Ragazzo negro” (in Italia pubblicato da Einaudi nel 1947). Nato in una piantagione del Mississippi nei primi anni del Novecento, i suoi nonni erano ex schiavi e tutta la sua vita di uomo e di scrittore si è concentrata sulle questioni razziali. Questi racconti, usciti in America nel 1961, non erano mai stati pubblicati in Italia, ma sono un piccolo classico della letteratura e sono stati scritti tra il 1937 e il 1959: questa antologia era per lui molto importante ma Wright non ha fatto in tempo a vederlo pubblicato perché è morto nel 1960. In realtà uscì in Italia per Mondadori una raccolta intitolata “Cinque uomini”, tradotta dalla sua amica Fernanda Pivano. 

 

Il traduttore Emanuele Giammarco ha adesso restituito a Wright tutta la potenza di questa lingua addolorata, arrabbiata, e perfino rassegnata: lo sguardo di un uomo nero sugli uomini neri che non vengono creduti, che vengono accusati ingiustamente, che non riescono nemmeno ad accettare di non essere trattati con razzismo, perché non sono abituati a ricevere rispetto, e quindi scivolano nello stesso pregiudizio che odiano e che li umilia di continuo. Ne “L’uomo che andò a Chicago”, i datori di lavoro ebrei non hanno alcun problema verso l’uomo nero, nessun sospetto e nessun disprezzo, ma lui non riesce a riconoscere che quelle persone sono sinceramente gentili con lui, sinceramente interessate a lui, e decide di comportarsi nel peggiore dei modi. E ne “L’uomo che visse sottoterra”, che è quasi un breve romanzo, c’è la discesa fisica e simbolica nelle fogne di una città americana di un fuggitivo, accusato ingiustamente di un omicidio, che da lì, dentro le fogne, guarda il mondo e lo vede esattamente per quello che è, un  luogo di sopraffazione e di insensatezza, un posto in cui lui è perfino stanco di fuggire, perché non sa dove andare e sa di non potersi salvare. L’amarezza di Wright scrittore è la sua amarezza di uomo, da un certo punto in poi esule fino alla fine dei suoi giorni. 

 

Ma nel primo racconto c’è un ragazzino, diciassette anni, che vuole difendere suo padre, vuole possedere una pistola, forse vuole cambiare le cose. Sembra una storia buffa, il bambino incantato davanti al catalogo delle pistole, il bambino che implora la madre di dargli i due dollari di paga, il bambino che porta fuori la mucca il mattino presto perché muore dalla voglia di provare la sua pistola. Si metterà nei guai, tutti rideranno di lui, e quella speranza forse si schianterà in qualche altro errore molto prima di fiorire. In quegli anni Richard Wright era  già uno scrittore affermato, ma quel dolore, quel senso di ineluttabilità della sventura, pur nel ritmo e perfino nel divertimento delle sue storie, sono sempre lì, intrappolati per sempre. “Adesso simpatizzavo con quei neri torturati che si davano per vinti, e che andavano dai loro carnefici bian‐chi per dir loro: ‘Prendimi a calci, se per me non c’è altro; prendimi a calci e fammi sentire a casa, dammi pace!’”. Sentirsi a casa: la più grande aspirazione per un uomo.

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.