Il senso di colpa di una madre e di un padre che diventa accusa, rabbia, disperazione

Annalena Benini

Accettare la sofferenza altrui significa soffrirne, e in questo romanzo Elena Varvello soffre, ma con una scrittura limpida e alta che solleva tutti i protagonisti, anche dentro la piccolezza delle azioni, la miseria dei caduti

L’ultima volta in cui Sara aveva visto suo figlio lui era in bagno, in piedi sulla soglia, nella luce rosata del tramonto estivo: le aveva sorriso, come se niente fosse, e si era chiuso dentro.

Elena Varvello, “Solo un ragazzo” (Einaudi)


  

È solo un ragazzo. Che cosa significa questa frase ascoltata migliaia di volte, pronunciata con condiscendenza, distacco, superiorità, tenerezza? Esiste un ragazzo che, in considerazione della sua giovinezza, è proprio solo un ragazzo? Che ha dentro cose vaghe da ragazzo, e basta, e niente può scalfirlo, niente può davvero fargli male. Elena Varvello, con questo romanzo teso e nero, ha risposto a questa domanda, portandoci dentro una vita di provincia, di boschi e di torrente, che diventa spettrale. La caduta di una famiglia, di una madre, di un padre, di due sorelle, che dal 1989 vivono con il vuoto di un figlio e di un fratello “che sorrideva sempre”, è anche la caduta di uomini e donne e la caduta trascina con sé tutte le altre possibilità dell’esistenza. La felicità, la serenità, il divertimento, l’amore, la bellezza, la frivolezza. Da quella notte del 1989 non è più accaduto niente di bello, perché nessuno è riuscito più a dire: è bello. E’ bello che ce l’hai fatta nonostante tutto, è bello che hai avuto dei figli, è bello che sono nonna, è bello che sono viva. C’è un velo di orrore che copre gli alberi e le case, come il cappuccio della felpa che il ragazzo teneva sempre alzato, e la madre gli diceva: ma non hai caldo? E’ estate. Poi non ha potuto dirglielo più.

 

C’è il senso di colpa di una madre e di un padre (ma nemmeno senso di colpa è un’espressione sufficiente a spiegare di che cosa si tratta, che cosa morde dentro e con quanta forza), che non hanno capito, che non sono stati capaci, e questo senso di colpa diventa accusa, rabbia, disperazione, diventa tutto ciò che resta e forse che li tiene uniti. La caduta li tiene insieme, dove altro potrebbero andare, chi altro potrebbe capire che una donna non desidera più niente, mangiare, parlare, amare. Non riesce più neanche ad amare le sue figlie, è viva ma è scomparsa da se stessa.

 

“- È come se mi avessero tirato fuori tutto il fiato. Non c’è più niente, dentro. Tu invece sembri come prima.

- Amore, non è vero. Lo sai che non è vero.

La luce del mattino era una macchia bianca dietro le imposte chiuse. Pietro desiderava solo restare lí per sempre. – Non dirmelo mai più, – avrebbe gridato Sara, un giorno di fine ottobre. – Non usare mai più quella parola.

Amore. Non con me. Non la sopporto più”.

 

Elena Varvello, che già con La vita felice si era inabissata nello spezzarsi dell’esistenza e nei legami famigliari, ha avuto il coraggio di entrare nel dolore più grande, quello che non ha scampo, raccontandone la storia e le conseguenze, avanti e indietro nel tempo, attraverso il punto di vista di ognuno dei suoi protagonisti. Le conseguenze sono per tutti diverse, ma il tempo si è fermato lì, a quella notte del 1989, e da lì regna con crudeltà sulle vite di tutti, dentro la pienezza della vita come dentro la fine dei giorni. Un padre che vorrebbe tornare indietro, cambiare le sue parole, e che ogni mattina per anni si sveglia ancora convinto che suo figlio stia dormendo in camera sua e che la vita sia una coperta calda, ma poi chiama sua moglie, e lei sta digrignando i denti e mugolando, perché il dolore non l’abbandona mai.

 

Fino a quella notte.

 

Accettare la sofferenza altrui significa prima di tutto soffrirne, e in questo romanzo la narratrice soffre, ma con una scrittura limpida e alta che solleva tutti i protagonisti, anche dentro la piccolezza delle azioni, la miseria dei caduti. Non era “solo un ragazzo”, questa è la risposta. Nessuno lo è.

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.