La missione dell'opposizione e quella di Paolo Savona

Al direttore - O Savona o morte!

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Attorno all’Humanae vitae del futuro santo (era ora) Paolo VI, di cui a breve ricorrerà il cinquantesimo anniversario, si leggono e si sentono manovre in corso, condotte più o meno sotto traccia, volte a una revisione in senso aperturista dell’enciclica che fin dalla sua promulgazione (anzi, a dirla tutta anche prima) non ha mai smesso di essere contestata da quagli ambienti ecclesiali che in virtù di un malinteso “spirito” del Vaticano II spingono per una maggiore apertura della chiesa in tema di morale sessuale e famigliare (e non solo). Revisione che, se fosse confermata, non solo innescherebbe inevitabilmente polemiche che non gioverebbero a nessuno ma, quel che più conta, servirebbe solo a creare ulteriore confusione tra i fedeli in un momento storico dove le acque in cui naviga la barca di Pietro sono già fin troppo agitate. Non vorremmo insomma che, complici gli immancabili teologi di complemento e qualche zelante prelato, con l’occasione magari del Sinodo sui giovani prossimo venturo si stesse preparando il terreno per una riforma all’insegna di un gattopardismo rovesciato (non cambiare nulla per cambiare tutto) di cui, questo è il punto, non se ne sente affatto il bisogno. Che anzi, stante l’inverno demografico che stiamo attraversando (per non parlare dei sei milioni di esseri umani mancanti all’appello perché abortiti legalmente grazie alla legge 194), se c’è una cosa che in primis i cattolici (ma non solo) dovrebbero riscoprire e fare propria è la straordinaria grandezza di un’enciclica che a distanza di mezzo secolo conserva intatta la sua carica profetica. Checché ne dicano i novatori di ieri e di oggi, l’Humanae vitae è rock, la contraccezione è lenta.

Luca Del Pozzo

 


 

Al direttore - Ho partecipato anch’io con tweet beffardi al gioco dell’ironia sulle disavventure curricolari dell’avvocato del popolo italiano e sulle grottesche esternazioni del suo mentore (una specie di “la storia siamo noi”). Del resto, ci sentiamo tutti attori protagonisti di quella commedia dell’arte, portentosa espressione del nostro atavico istrionismo, che va in scena ogni giorno nel teatro dei social. Ma solo con le battute non si fa politica. Lo dico pensando in particolare ai vertici del Pd, che in queste ore stanno promettendo una dura opposizione al “governo Frankenstein” (copyright Mario Sechi). Insomma, non basta dileggiare l’avversario con qualche facezia (“ora l’establishment sono loro”, “ci costituiremo parte civile”). Occorre mettere rapidamente in campo idee, proposte, progetti alternativi. Beninteso, dopo una disfatta elettorale una campagna d’ascolto di iscritti e cittadini è sempre benvenuta. Ma sarebbe ancora più benvenuta una campagna di iniziative nel paese per denunciare gli ammiccamenti del contratto pentaleghista ad antagonisti (no Tav), oscurantisti (no Vax), ambientalisti radicali (no Tap, no Ilva), neocolbertisti (banca statale, nazionalizzazione Alitalia), stampatori di moneta parallela (i minibot, alias altro debito pubblico). Senza sottovalutare, inoltre, la portata del conflitto istituzionale innescato dall’affaire Savona. A tal proposito, osservo che il presidente Mattarella avrà pure peccato di un eccesso di appeasement, ma in una condizione di drammatica solitudine anche in virtù dell’immobilismo e dell’evanescenza dei partiti sconfitti il 4 marzo. Per concludere, fossi in Matteo Renzi invece di aspettare che il cadavere del nemico passi sulle rive del fiume, tenterei di risalirne la corrente a bordo di una nuova barca, con passeggeri che remino dalla stessa parte.

Michele Magno

Prima di pensare a partiti nuovi, o a rinnovare i partiti, c’è solo una grande battaglia di civiltà che andrebbe portata avanti dalle opposizioni: preparare la grande battaglia che potrebbe aiutare l’Italia a funzionare come dovrebbe, costringendo tutti i partiti a fare i conti con i propri elementi di responsabilità e i propri elementi di irresponsabilità: una legge elettorale maggioritaria. Per provare così a dare un senso alla legislatura.

 


 

Al direttore - Stefano Cingolani giustamente osserva sul Foglio del 25 maggio che Paolo Savona è un uomo delle istituzioni e segue una linea rigorosa nella gestione dei conti pubblici. Queste due qualità – lealtà istituzionale e rigore nella finanza pubblica – unite all’eccezionale competenza ed esperienza nell’economia e nella finanza, oltre a un alto livello culturale e a una serie di relazioni internazionali accademiche e istituzionali, potrebbero essere sufficienti per far cadere almeno due terzi delle critiche rivolte contro il suo possibile insediamento al vertice del Tesoro. L’evocazione di Yanis Varoufakis può valere solo per la competenza in economia, che l’ex ministro greco possiede e che metteva in difficoltà i partner, meno dotati, in alcuni dei Consigli europei. Savona, come è noto, prima della sottoscrizione del trattato di Maastricht, aveva formulato precise obiezioni sul modo in cui si redigeva tale atto; ne scaturì un confronto dialettico con il suo maestro, sottoscrittore del trattato, Guido Carli. Poco dopo, pur conoscendo bene questa posizione, Carlo Azeglio Ciampi, incaricato di formare nel 1993 il governo, non esitò a investire Savona del compito di ministro, nell’esercizio del quale questi dimostrò ampia lealtà nei confronti dell’indirizzo unitariamente scelto. La stessa cosa accadrebbe oggi, essendo ben chiaro che le posizioni di questo professore, con grave scorrettezza definite da alcuni “no euro” quando, invece, sono di legittima e costruttiva critica a determinate politiche adottate nell’Unione, si confronterebbero e sarebbero mediate all’interno della compagine governativa. Aveva in anticipo criticato, con ferreo rigore analitico, le scelte che poi furono definite a Maastricht pure quel grande governatore che fu Paolo Baffi: anch’egli ora sarebbe colpito da ostracismo? Oggi, quel che scrisse Baffi in un celebre intervento sulla Stampa è condiviso unanimemente così come diffusamente si registra l’errore grave di avere previsto, da parte di molti euro-entusiasti, che l’“intendance suivra”, cioè che l’unificazione della politica economica avrebbe fatto seguito automaticamente alla moneta unica e all’unificazione della politica monetaria. Allora si può nutrire il legittimo sospetto che una parte dell’establishment non voglia una dialettica proficua nelle sedi istituzionali europee e prospetti il rischio spread che, se lo si dovesse correre, ciò accadrebbe semmai per il programma di cui al noto contratto e non certo per Savona che, semmai, con la sua preparazione ed esperienza potrebbe anche arginare punti inaccettabili di tale programma. O si pensa che la “Repubblica non ha bisogno di filosofi”, come in una celebre dichiarazione rivoluzionaria assunta qui come metafora? Con i migliori saluti.

Angelo De Mattia

 

Savona è persona rispettabile, amico di questo giornale, stimato anche dai suoi avversari, ma qui il problema non è il profilo di un professore ma sono le idee che portano un politico come Matteo Salvini, favorevole all’uscita dell’Italia dall’euro, a volere un ministro come Paolo Savona, che il piano B per uscire dall’euro lo teorizza da anni. Siamo sempre lì: può essere affidabile, e credibile, agli occhi degli investitori, un paese che fa di tutto per non rassicurare sulle sue intenzioni sulla moneta unica? Risposta: no.

 


 

Al direttore - Per l’autorevolezza di Luigi Zanda le sue opinioni vanno sempre considerate con l’attenzione e il rispetto dovuti. Mi rimane, tuttavia, il dubbio che la sua lettera di ieri – una excusatio (non) petita – a difesa della linea di condotta del Quirinale nella crisi metta bene in evidenza il terrore diffuso nel Pd per la minaccia di elezioni anticipate in tempi ravvicinati, per sventare la quale qualunque governo – anche quello della fame, del freddo e della paura che sta nascendo – sarebbe stato comunque il benvenuto.

Giuliano Cazzola

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