Buona notizia nella bandiera del Pd: l'Europa c'è

Al direttore - La struttura creata dal ministro Minniti per contrastare le fake news inizi dalla commissione Moro. Lì le bufale non mancano e c’è un sacco di lavoro da fare.

Frank Cimini

 


 

Al direttore - Con il discorso alla Luiss Paolo Gentiloni si è qualificato come un’alternativa salda e sicura nel caos di una campagna elettorale dai toni vergognosi ed offensivi per i cittadini. Ha cacciato dai ‘’fori cadenti’’ delle istituzioni democratiche i mercanti di cianfrusaglie, gli imbonitori, i mangiatori di fuoco, gli indovini, gli accattoni, i finti profeti, i prosseneti, i falsari e gli spacciatori. Gentiloni potrebbe essere definito ‘’la banalità della politica’’. Ma in tempi come gli attuali anche una poiana, in mezzo al gracchiare dei corvi, fa la figura di un’aquila nobile e maestosa.

Giuliano Cazzola

Discorso europeista. Interessante. Così come è interessante che il Pd abbia scelto di scommettere macronianamente sull’Europa per la sua campagna elettorale. Non ci sono le stelline nel simbolo, come speravamo, ma il primo manifesto elettorale dice così, prima di invitare a mettere una “x” sul simbolo del Pd: vota l’Europa. Interessante.

 


 

Al direttore - Abbiamo letto e riletto le parole del Fondatore Scalfari ieri consegnate a Repubblica, piene di saggezza, intelligenza, senso profondo della vita, orgoglio per le cose fatte. Abbiamo ascoltato le parole dell’Ingegnere, dispensate in una intervista televisiva a Lilly Gruber di qualche sera fa, dove emerge tutta la sua forza di condizionamento del sistema, tutta la sua capacità di visione strategica, il suo gusto nel giudicare, corteggiare, criticare le persone che incontra nel suo poliedrico agire di manager, imprenditore, editore, influencer. Le due interviste però ci mostrano Scalfari e De Benedetti oggi l’uno contro l’altro, divisi su tutto dopo essere stati uniti da tutto, addirittura capaci di chiamarsi “fratelli”, almeno fino a qualche tempo fa (lo rivela Scalfari), ma oggi pronti a scagliarsi accuse gravissime e devastanti non solo e non tanto sul piano del merito, ma innanzitutto sul piano personale. De Benedetti descrive come una deriva senile le ultime posizioni di Scalfari sui temi politici d’attualità, in particolare la scelta in favore del Cavaliere nell’ipotetico ballottaggio tra lui e Di Maio, aggiungendovi l’accusa infamante di “vanità”. In buona sostanza l’ingegnere ci dice che l’Eugenio nazionale non è più in grado di intendere e volere, scegliendo quindi il terreno di critica più crudele verso un uomo nato nel 1924. Scalfari risponde da par suo, giungendo innanzitutto a negare con risolutezza il ruolo rivendicato da CDB nel salvataggio di Repubblica, quantificandone in 50 milioni di lire il contributo su un capitale di 5 miliardi, per poi giungere ad affermare che l’atteggiamento di oggi dell’Ingegnere verso il giornale “disonora” il suo ruolo di Presidente Onorario del gruppo editoriale. Ci sorge una domanda, che è anche un sentimento, una convinzione. Non è che ci tocca constatare che il Cavaliere, anzi l’ex Cavaliere, con tutti i suoi vai e vieni, il Bunga Bunga e le cene eleganti, il cerone sulla faccia e tutto il resto che ben conosciamo, è invecchiato meglio di loro? Forse che forse che si.

Roberto Arditti

 


 

Al direttore - Fra Carlo De Benedetti e Eugenio Scalfari è il momento, per dirla alla francese, dei “Je m’en fous…”. Del resto quella di Repubblica in Italia è sempre stata una storia più padronale che giornalistica. Per tornare al giornalismo, verrebbe da andare nella Francia della Terza Repubblica e rileggersi la storia della “Justice”. Ideatore, cioè fondatore, fu Clemenceau: non certo quel Cornelius Herz, che vi contribuì con qualche soldo “maleodorante”, ma a pieno titolo il grande redattore capo Camille Pelletan. Un giorno dell’estate del 1880, Clemenceau era venuto in Senato e sotto braccio dell’amicissimo vicepresidente alsaziano Scheurer-Kestner ne subiva i rimproveri per gli eccessi polemici del giornale contro Gambetta e Ferry; si accostò a loro Pelletan, il quale con una alzata di spalle fece sapere: “Quanto a Clemenceau, Je m’en fous…”. Con buona pace della ben diversa storia nostra di “Repubblica”, tutto si limitò a due eleganti e rispettose alzate di spalle che mai avrebbero insidiato la lunga collaborazione fra Clemenceau e Pelletan.

Luigi Compagna

Sembra quasi impossibile dire che Scalfari e De Benedetti oggi abbiano qualcosa in comune. Ma qualcosa forse c’è. Con i vecchi leoni di Rep. si può essere d’accordo oppure no (e noi spesso siamo e siamo stati in disaccordo quasi su tutto) ma c’è un dato oggettivo che è difficile da negare: il loro pensiero, nel mondo di Repubblica, è ancora l’unico che riesce a far discutere.

 


 

Al direttore - Mai come oggi l’Italia ha bisogno di una rivoluzione conservatrice e liberale. Può suonare un pardosso, ma non lo è. Per conservatrice s’intende una visione che punta a conservare, rivitalizzandolo, il meglio della tradizione italiana le cui radici affondano nella cultura giudaico-cristiana e greco-romana. Liberale significa, in estrema sintesi, è una visione in cui lo Stato si ferma sull’uscio di casa dei cittadini. Senza pretendere di entrarci dentro e dettare regole su tutto, da cosa mangiare e come a cosa pensare leggere vestire, ecc. E’ ciò che potremmo chiamare uno Stato minimo. Che tiene per sé i settori cruciali della sicurezza interna ed esterna, che andrebbero opportunamente potenziati (soprattutto il primo, imponendo ovunque e comunque il modello Giuliani della zero tolerance), della giustizia, a patto di riformarla recidendo in modo netto il nodo che in ampi settori di essa la lega alla politica per tornare ad essere ciò la Costituzione più bella del mondo prevede che sia, dell’energia e delle infrastrutture strategiche e, ma solo parzialmente, della sanità. Tutto il resto, e sottolineo tutto: dall’economia all’istruzione, dalla sanità all’informazione e va dicendo fino all’ultimo dei comparti, deve essere lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e delle imprese, nell’ottica del principio di sussidiarietà. Il che vuol dire, a cascata, sburocratizzazione della vita pubblica, semplificazione normativa, riforma della pubblica amministrazione, riforma istituzionale. Al centro della vita sociale e politica del paese deve tornare la persona, la cui vita va tutelata dal concepimento alla fine naturale, i suoi diritti inalienabili, primo fra tutti alla libertà religiosa e all’educazione, la sua dignità. E poi la famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, vero pilastro della società e unico argine contro le spinte dissolutrici e individualiste che hanno come unico obiettivo l’isolamento degli individui per poterli meglio manipolare. Riusciranno i nostri eroi?

Luca Del Pozzo

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