A chi fa gioco l'industria del rancore? Chi sono in Puglia i nuovi spartani

Al direttore - Nei suoi rapporti, il Censis – grazie alle intuizioni di Giuseppe De Rita – individua sempre una parola-chiave che interpreta e connota la situazione del paese. Quest’anno, tale parola è “rancore’’. Divenuti irrimediabilmente “rancorosi’’ (i commentatori hanno attribuito questa diffusa malevolenza a un presunto blocco dell’ascensore sociale e alle diseguaglianze economiche) gli italiani – con percentuali che vanno dal 70 per cento all’85 per cento – non hanno più fiducia nelle istituzioni pubbliche e private. Ma, ecco la sorpresa, il 78,2 per cento dei nostri concittadini (alla faccia della c.d. società dei due terzi) si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce: “Dopo gli anni del severo scrutinio dei consumi, torna il primato dello stile di vita e del benessere soggettivo, dall’estetica al tempo libero. La somma delle piccole cose che contano genera la felicità quotidiana: è un coccolarsi di massa”. Al solito, il Convento è povero, ma i frati sono grassi. Il conto non torna.

Giuliano Cazzola

 

La domanda allora è ovvia: perché giornali e talk-show provano ogni giorno a convincerci del contrario? Perché i cittadini soddisfatti della propria vita vengono rappresentati come se fossero una piccola e sfigata minoranza? Non sarà mica che c’è qualcuno che vuole raccontare un mondo che non esiste solo per il gusto di alimentare la prolifica industria del rancore? E se vi state chiedendo per caso come sia possibile che un paese che migliora è un paese arrabbiato e rancoroso fate un esperimento: accendete un talk-show dopo cena e prendete appunti.

 

Al direttore - Alle Termopili 300 spartani fermarono l’armata persiana. In Italia per fermare un’opera ne bastano invece 100, tra autorizzazioni permessi ricorsi lacci e lacciuoli (casi Ilva e Tap docent). Della serie: veti, vidi, vici. Peccato solo che per pochi che vincono un paese intero perde. E la chiamano pure felice, la decrescita. Chapeau.

Luca Del Pozzo

 

Al direttore - La Ciliegia in diverse occasioni ha espresso il suo scetticismo sulla commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. Per quel che è avvenuto in occasione dell’audizione di giovedì scorso del procuratore della Repubblica di Arezzo, Roberto Rossi, lo scetticismo potrebbe fare proseliti. Inferire, come è accaduto, da alcune dichiarazioni del magistrato inquirente una sorta di sentenza irrevocabile sull’operato della Banca d’Italia in occasione della messa in amministrazione straordinaria dell’ex Popolare dell’Etruria e farlo senza approfondire il merito di alcune decisioni della Vigilanza stessa e la distinzione tra misure effettivamente adottate e altre che si vogliono attribuire forzatamente e polemicamente all’Istituto sono comportamenti, tenuti da alcuni e accompagnati da una sorta di tifo ed esultanze da stadio, che finiscono con il danneggiare purtroppo tutte le istituzioni coinvolte, non solo l’Istituto centrale. Manca solo che in questa vicenda emerga in futuro un Vysinskij nostrano. Le distorsioni istituzionali suscettibili di verificarsi sono gravi. I riflessi internazionali, del pari. Si adottino, fino a che sarà possibile, gli antidoti. Non si vuole di certo negare l’accertamento della verità, ma ciò va fatto quanto meno osservando la regola sulla stupidità di Carlo Maria Cipolla, per non incorrervi, e ottemperando alla legge istitutiva dell’inchiesta che pone in primo piano l’accertamento delle cause innanzitutto esogene della crisi di diverse banche. Occorrerebbe, poi, sospendere il giudizio prima di avere completato analisi e audizioni, fra le quali quella di Ignazio Visco a proposito del quale – conoscendone il rigore – posso agevolmente prevedere che farà venir meno molte improvvide esultanze.

Angelo De Mattia

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