Matteo Orfini (foto LaPresse)

Ah, la mafia. Ok, chi avvisa Orfini che Marino non c'è più?

Le lettere al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Chi avvisa Orfini che Marino non c’è più?

Giuseppe De Filippi

Orfini, già. Il presidente del Pd, e non solo lui, ieri ha rilasciato la seguente dichiarazione. “Possiamo reagire in tanti modi alla sentenza di ieri, tutti ovviamente comprensibili e legittimi. Ma il più sbagliato è quello forse più diffuso in queste ore: sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma perché Roma non è una città mafiosa. Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”. Sostenere che a Roma ci sia la mafia nel giorno in cui una sentenza di primo grado ha detto il contrario significa iscriversi al partito dell’oltre-verità (leggete il Salvatore Merlo di oggi) e significa voler rivendicare quello che il Pd ha fatto a Roma prima dell’arrivo di Virginia Raggi: aspettare le indagini di una procura per fare piazza pulita nel proprio partito. Per rendersi conto che il Pd a Roma andava rivoltato come un calzino, il Pd ha dovuto aspettare l’indagine di Mafia Capitale. Per rendersi conto che Ignazio Marino era un sindaco disastroso, il Pd ha dovuto aspettare una ridicola inchiesta sugli scontrini. Speriamo non sia necessaria un’altra indagine della procura per spiegare al Pd romano che per sbarazzarsi di Virginia Raggi non serve fare affidamento su una procura, ma serve fare quello che il Pd ancora oggi ha difficoltà a fare: dimostrare che la corruzione in una città non si combatte agitando la bandiera dell’antimafia, ma si combatte agitando con efficacia la bandiera dell’efficienza. Di Virginia Raggi, a Roma, ne abbiamo già una, le brutte copie non servono, molte grazie.

 


 

Al direttore - La sentenza che ha cancellato l’impianto accusatorio della procura di Roma ha lasciato l’amaro in bocca ai novelli professionisti dell’antimafia. “Roma città corrotta? Non credo: troppi impiegati. Sarebbe una corruzione fondata sull’anticipo degli arretrati, su una ferma richiesta di aumenti e sull’anticipo della liquidazione. Ed è mai possibile?” (Ennio Flaiano, Il Mondo, aprile 1957). Con la sua proverbiale e graffiante ironia, il grande pescarese aveva visto giusto già sessant’anni fa. Qualcuno ricorda? Mentre era in corso il maxi-processo a Carminati e Buzzi, si susseguivano gli arresti di funzionari del Campidoglio che intascavano mazzette e di imprenditori che le elargivano per accaparrarsi gli appalti perfino per riempire qualche buca o rimuovere qualche sampietrino. Leggere questi miserabili episodi di malaffare, pure diffusi e scandalosi, come la conferma dell’esistenza di una piovra mafiosa nella Capitale faceva francamente sorridere. La verità è più semplice, anche se non per questo meno seria. Infatti, ci troviamo di fronte al collasso economico e politico di una metropoli la cui geografia del potere è profondamente cambiata (ci sono anche meno soldi da distribuire a clientele e corporazioni), ma che – oggi come ieri – rimane senza “grandi peccatori”. Perché mancano, come scriveva sempre Flaiano nel 1960, “i falsi messia, i poeti inediti (tutti stampano qualcosa), i cupi visionari, gli affaristi pazzi, i pittori della domenica, i filosofi ambulanti: non avrebbero un pubblico”. Insieme al denaro, la sola grande attrazione – egli aggiungeva – resta il sesso. Tuttavia, “questa inclinazione del romano verso la Donna non prende mai l’aspetto del rovinoso vizio e della passione. Il sesso è un conforto, anch’esso vagamente parafamiliare. L’estate scorsa è venuta a Roma Lily Niagara a fare spettacoli di spogliarello. Dopo quattro giorni, nel locale dove lavorava, si entrava con la riduzione dell’Enal” (“La solitudine del satiro”). In altre parole: il vizio a Roma è sempre stato razionale e utilitario, un fatto esteriore, un costume, una moda. Sta qui anche il carattere profondamente meschino della sua corruzione. Ci voleva solo la fervida immaginazione di qualche pubblico ministero o l’incallito voyeurismo di qualche infoiato giornalista per trovarlo ardito, violento e spietato come quello delle multinazionali del crimine. Del resto, più o meno ramificato che sia, ogni sistema corruttivo che la vede coinvolta conferma che la politica è come il colesterolo: c’è la molecola buona e c’è quella cattiva. Per abbassare nel corpo umano la seconda solitamente viene prescritto un medicinale, la statina. Per abbassarla nel corpo sociale il medicinale non è però il moralismo ma il diritto, le buone leggi e la loro rigorosa applicazione. Il codice penale, i magistrati e le forze di polizia ci sono perché ci sono – e sempre ci saranno – i ladri. Servono – o dovrebbero servire- a punirli e, soprattutto, a scoraggiare l’auri sacra fames, quell’impulso irresistibile ad arricchirsi di cui parlava Max Weber. Se invece si vogliono fare puntate facili alla roulette dell’antipolitica, si dia pure libero sfogo all’indignazione dei cittadini contro corrotti e corruttori dell’Urbe. Ma attenzione a quell’oppio dei popoli che non è la religione, come pensava Marx, ma la demagogia. La demagogia in Italia è ormai una merce che chiunque può acquistare a prezzi stracciati. In queste ore imperversano nei mass media nugoli di novelli Savonarola affamati d’etica a buon mercato che non sanno, o che fanno finta di non sapere, che il principio di legalità è moralmente neutrale. Perché, ammoniva Kant – un filosofo che di etica se ne intendeva – lo stato “non può esigere l’integrità morale dei cittadini, ma unicamente la loro lealtà”.

Michele Magno