Il ministro della Cultura Dario Franceschini (foto LaPresse)

Credere o no nel progetto del Pd, questo è il problema

Al direttore - Pil sopra le attese, fiducia economica in Ue a livelli pre crisi, esercito entra a Mosul e dice Isis finito. A ’sto punto va bene pure se Woodcock fosse un granchio.

Giuseppe De Filippi

  


 

Al direttore - Per parafrasare le parole di uno statista, tutto (o quasi) mi divide da Giuliano Ferrara tranne la stima che nutro per la sua brillante intelligenza politica e per il suo gusto della provocazione culturale. Essendo io ulivista, antiberlusconiano e – “summa iniuria” – persino martiniano. Il massimo dell’abiezione agli occhi di Giuliano, che tuttavia so, signorilmente, non mi vuole male. Egli contesta a Franceschini la formula secondo la quale il Pd sarebbe “nato per unire”. A suo dire, invece, esso sarebbe stato concepito per distinguere un partito “a vocazione maggioritaria” dalle “unioni coatte” dell’Ulivo. Coazione a parte, c’è del vero, ma forse merita un chiarimento. Il vero sta nella circostanza che effettivamente Veltroni, primo segretario del Pd, pose fine alla politica delle alleanze. Un errore, dal mio punto di vista, opposto a quello di Ferrara. Un errore che sortì dapprima la caduta del secondo governo Prodi e, a seguire, una sconfitta strategica che egli ancora racconta come una mezza vittoria nelle elezioni del 2008. Sì, il Pd raccolse il 33 per cento, ma Berlusconi stravinse e conquistò una maggioranza parlamentare straripante, senza precedenti nella storia della Repubblica. Singolare la circostanza che un fiero bipolarista come Veltroni giudicasse come una mezza vittoria qualche punto percentuale in più al proprio partito, anziché misurare la disfatta con la distanza, mai così grande, tra i due schieramenti. Qui sta, a mio avviso, anche il limite della recente presa di distanze di Veltroni da Renzi. Il quale, in realtà, non ha fatto che dare seguito e, se si vuole, portare alle estreme conseguenze la strategia veltroniana: inopinata, forzosa accelerazione verso il bipartitismo, presunzione di autosufficienza del Pd, enfasi sulla parola magica “innovazione” (a discapito della protezione sociale, giudicata retrò) inscritta dentro la retorica di un riformismo che a fatica si distingue da quello del campo avverso e che si contenta di evocare le antinomie, cioè i concreti conflitti (tipo: radicalità-moderazione). Concordismo nominalista. Io, da ulivista impenitente, sul punto qualche volta in dissenso dal mio amico Arturo Parisi, ho sempre pensato che la storia e le culture politiche del nostro paese, essenzialmente connotate da un ricco pluralismo, difficilmente avrebbero potuto sopportare la camicia di nesso del bipartitismo, la “reductio ad unum” dei due opposti campi. E che, forzando a dismisura, si sarebbe ottenuto l’effetto contrario, ovvero la disarticolazione del sistema. Non voglio esagerare nella presunzione, ma mi pare che le cose stiano andando così. Che il Pd renziano sia sempre più isolato e diviso. Diviso dentro e divisivo fuori. Quale vocazione maggioritaria con il 25 per cento, la tanto disprezzata misura del consenso raccolto da Bersani nel 2013? I sondaggi, per quel poco che contano, segnalano che, dei tre grandi aggregati (centrodestra, 5 stelle, Pd), il Pd è terzo! Essendo attento lettore del Foglio, conosco la sua ricetta: il patto/governo della nazione sull’asse Pd-FI. Paradossale nemesi: i cultori del bipolarismo spinto sino al bipartitismo (ci metto anche i Salvati) oggi patrocinano il trionfo di un modello consociativo.

on. Franco Monaco

Caro Monaco, la sua lettera è molto bella e densa ma mi sembra che lei stia girando attorno al punto cruciale. I cultori del bipolarismo hanno apprezzato la nascita del Pd perché la vocazione maggioritaria era una cosa importante: superare le divisioni del passato, aggregare che è diverso da unire, mettere da parte l'idea che fosse sbagliata la politica del non avere nemici a sinistra. Veltroni ci ha provato ma ha incontrato due ostacoli che sarebbe bene ammettere. Il primo: l’eredità del governo Prodi, e se il Pd nel 2008 ha perso non è perché il progetto di Veltroni fosse sbagliato ma è perché l’Italia veniva da due anni disastrosi di Unione, tutti ricordiamo il dramma di quei 24 mesi. La seconda ragione – minima – è che Veltroni nel 2008 non andò da solo: ruppe con la sinistra sfascista ma al contrario della sua promessa (fatta nel novembre del 2007 a un giovane cronista di questo giornale) non andò da solo alle elezioni ma andò (disastro) con Di Pietro. Quanto ai nostri giorni, non confonda il realismo con il cinismo. Noi abbiamo tifato per la nascita di un sistema maggioritario e dobbiamo registrare che la stragrande maggioranza del paese ha detto no a quel modello, e la Corte costituzionale (con la sua sentenza sull’Italicum) non ha fatto altro che riflettere l’Italia uscita fuori dal referendum. La soluzione più naturale oggi è misurare alle elezioni quanto valgono i singoli partiti e poi capire dopo il voto quali sono le coalizioni che si possono fare. È questo l’unico modo per far sopravvivere il Pd, il nuovo Pd. E dire, come fa Franceschini e qualcun altro, che il Pd può esistere solo se riunisce algebricamente le sinistre, riprendendo cioè proprio il modello che il Pd ha superato, significa aver rinunciato a fare una cosa semplice: credere ancora non in Renzi ma nel progetto del Pd.

 


 

Al direttore - Oggi i medici dell’ospedale inglese in cui è ricoverato il piccolo Charlie Gard staccheranno la spina della macchina che gli permette di respirare, lasciandolo morire. Lo faranno perché così ha deciso un tribunale, assecondato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, contro il volere dei genitori, i quali chiedevano solo il tempo di potere portare il figlio negli Stati Uniti per provare a curarlo. Dell’assurdità etica e morale della vicenda avete già scritto, così come dell’autoritarismo dei giudici, i quali hanno deciso che il “miglior interesse del fanciullo” è che Charlie muoia. Ciò che mi ha colpito di più in questa vicenda è però il silenzio con cui è stata accolta e vissuta da media, opinionisti e persone comuni: ho visto più appelli per gli orsi polari, più indignazione per le mucche al macello, più mobilitazione per i lupi dell’Appennino. Ci siamo forse abituati definitivamente alla cultura della morte, da non riuscire più nemmeno ad alzare la voce di fronte a un bambino di dieci mesi condannato a morire per via giudiziaria?

Piero Giorgio

L’insondabile dramma umano di Charlie e della sua famiglia, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi sul Foglio, si accompagna a una tragedia giuridica, fatta di tribunali che si spalleggiano nel promuovere la cultura della morte. Non consola sapere che non si tratta di una deviazione dal corso del diritto, così com’è interpretato oggi da alcune corti, ma del corretto svolgimento delle sue premesse.

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