L'ordine dei giornalisti sospende don Livio Fanzaga. Viva don Livio

Al direttore - Caro Cerasa, ho letto ieri una notizia che mi ha colpito e fatto male. Ho visto che a Monza un bambino di sei anni è morto a causa di complicanze dovute al morbillo. Quel bambino era affetto da una leucemia linfoblastica acuta e a causa di quella patologia non aveva abbastanza difese immunitarie. La storia è drammatica per molte ragioni ma ci ricorda una cosa che dovrebbe essere ovvia e non lo è: ci sono bambini e persone che o non hanno difese immunitarie elevate o non possono vaccinarsi che rischiano di morire perché genitori di altri bambini per ragioni sciocche scelgono di non vaccinare i propri figli. La storia del bambino di Monza è tragica. Speriamo faccia riflettere qualcuno.

Lorenzo Tosti

Ha ragione. È una storia drammatica che ci ricorda un’altra storia drammatica di cui abbiamo parlato spesso sul nostro giornale. I bambini e le persone che non possono vaccinarsi hanno solo una possibilità di salvarsi dalle malattie per le quali non possono vaccinarsi: sperare che nel loro paese la così detta immunità di gregge, ovvero la protezione indiretta anche per i bambini che per specifici motivi di salute non si possono vaccinare, sia superiore al 95 per cento. In Italia quella soglia, per alcune malattie come il morbillo e la rosolia, è sotto quota 90 per cento. Prima la si smetterà di giocare con il fuoco e prima si avrà la possibilità di salvare persone drammaticamente deboli che rischiano di morire solo per un capriccio ideologico. 


 

Al direttore - La sospensione di don Livio Fanzaga decisa dall’Ordine dei giornalisti deve far riflettere. E non solo perché viene sempre più voglia di appoggiare la crociata di Macron contro il corporativismo giornalistico di stampo fascista (è un dato storico, non un’opinione), ma perché ormai non c’è più spazio neppure per la contestualizzazione di certe frasi che vengono pronunciate, soprattutto in un mezzo (la radio) che proprio nel gergo spesso forte e paradossale trova una delle sue ragioni d’essere. Don Livio non voleva augurare la morte alla senatrice Cirinnà, come riportato dai solerti mezzi d’informazione, perennemente indignati per tutto ciò che contrasta con il politicamente corretto. Innanzitutto perché è un prete molto devoto alla Madonna e alla chiesa, in secondo luogo perché altro non ha fatto che ricordare cristianamente che delle nostre azioni terrene saremo poi chiamati a rispondere un domani. Certo, è una visione cristiana. E in questo mondo (basti guardare alle tracce proposte ai maturandi) tutto ciò che richiama in qualche modo il cristianesimo è da nascondere. A questo punto, però, servirebbe coerenza. Demoliamo dai cimiteri il celebre epitaffio che fu scandito da san Pier Damiani (un santo!): “Ciò che tu sei, io fui; ciò che io sono adesso, tu sarai”. Detto altrimenti, memento mori. Per fortuna, all’epoca del santo non esisteva l’ordine dei giornalisti.

Dolores A. Cappuccio

Forza don Livio.

 


 

Al direttore - Pubblicato nel 1935 a Zurigo, “Eredità del nostro tempo” di Ernst Bloch è un magistrale saggio storico-sociologico sul crollo della Repubblica di Weimar e sull’avvento del nazismo. La sua introduzione si intitola non a caso “Polvere”. La metafora centrale del libro è infatti la polvere, che la piccola borghesia in rovina solleva nell’aria e che si diffonde rapidamente in tutto il Deutsches Reich. Potenze della polvere sono la distrazione e l’inebriamento di massa, le due categorie interpretative di cui si serve Bloch per esaminare l’ascesa di Hitler. Sotto la scura polvere che si alza in un’atmosfera cupa e minacciosa, non c’è una via d’uscita. Il finale, quindi, è già scritto. Mentre l’operaio senza lavoro non guardava più a Mosca, l’impiegato disoccupato si affidò al Führer. In Europa, nei primi decenni del Novecento, la rabbia e la paura dei ceti medi impoveriti furono catturate e addomesticate da regimi totalitari. Oggi la situazione è ovviamente assai diversa, ma una domanda resta la stessa: quale può essere lo sbocco politico della ribellione “paranoide” di una classe media in declino, che si tinge sempre più di colori razzisti e xenofobi? Passando a noi, c’è allora da essere fortemente preoccupati per la montante convergenza tra il populismo di Salvini e quello di Grillo, un mix di rivolta luddista e sovversivismo sociale. Nelle sacre rappresentazioni dei due leader, gli abiti di Satana sono identici. Possono essere, a seconda delle circostanze, lo stato dei padroni, la casta dei politicanti, la grande finanza, il complesso militare-industriale, i poteri forti, la massoneria, gli incontri annuali di Bilderberg e quelli della Trilaterale. Nulla di scandaloso, perché il populismo non è un’ideologia, ma una sindrome basata su due radicate convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e che sia, insieme, vittima di raggiri, inganni, persecuzioni. In questo senso, si può ben dire che il populismo è una religione neopagana in cui il Popolo è Dio, un Dio che adora se stesso. Sul fuoco del populismo, poi, soffia la Rete, vale a dire il maggior simbolo della modernità. Guardando agli ultimi risultati elettorali nei principali paesi dell’Unione europea, è innegabile che le spinte populiste siano state arginate e, in qualche misura, assorbite. Può darsi che il sistema proporzionale con cui andremo a votare liberi Silvio Berlusconi dall’abbraccio mortale con il suo scomodo alleato, e questa sarebbe una buona notizia. D’altro canto, però, il sistema proporzionale non rende solo difficile l’insediamento di un inquilino a Palazzo Chigi, ma costituisce un formidabile moltiplicatore delle pulsioni plebiscitarie che allignano nella società domestica. Il mio sarà un “pessimismo magno” (come del resto si conviene al nome che porto), ma per il momento dobbiamo registrare soltanto insulse prediche moraleggianti contro il qualunquismo da osteria e la violenza verbale (e talvolta fisica) che impazzano nella lotta politica, e soltanto fiacche censure dell’isteria collettiva che dilaga nei blog contro il sapere scientifico e la democrazia parlamentare. Inoltre, siamo costretti ad assistere – sconcertati e impotenti – alla marea montante degli appetiti clientelari e alla guerriglia, che si manifesta in forme sempre più aggressive, delle mille corporazioni in difesa dei propri privilegi e delle proprie rendite speculative. Il governo Gentiloni sta facendo ciò che può, ma ciò che può è poco. Per altro verso, il Pd balbetta. Il suo segretario si affida a Prodi Vinavil, ma per attaccare cosa ancora non è chiaro. La riforma della Pubblica amministrazione è un fantasma (lo sanno bene gli sfollati delle regioni terremotate). L’europeismo riluttante di Renzi è ormai stucchevole. L’ex premier continua a perdere consensi (non solo tra i giovani), ma sembra non curarsene. Raramente gli ho sentito pronunciare la parola operaio. Emanuele Macaluso ama ripetere che il Pd non è un partito, ma un agglomerato politico-elettorale. Forse ha ragione, ma non è questo il punto. La verità è che ancora non si capisce (almeno chi scrive non capisce) cosa voglia fare da grande: rilanciare la sua vocazione maggioritaria, seguendo le orme di République en marche di Macron, o acconciarsi mestamente alla riedizione di un Ulivo in sedicesimo con Giuliano Pisapia?

Michele Magno

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