Un Satyagraha del giornalismo contro la gogna. Altre adesioni

Al direttore - In una lunga lettera pubblicata sul Foglio il 6 gennaio scorso, Paolo Cirino Pomicino vedeva riaffacciarsi i segnali di una sorta di nuovo Congresso di Vienna, ovvero di quella “restaurazione non conservatrice che consentì il passaggio dalle monarchie assolute alle monarchie costituzionali”. “Ci riferiamo – scriveva Pomicino – alla riesumazione del principio di legittimità e di equilibrio [dei poteri]”. “La grande vittoria del No al referendum costituzionale – proseguiva – non è forse la riconferma popolare del principio di legittimità di un Parlamento che non può più essere un Parlamento di nominati ma di eletti? E il 60 per cento degli italiani non ha forse chiesto a gran voce il ripristino di un principio di equilibrio tra i poteri dello stato a fronte di un impulso onirico che vedeva, nella sostanza, un uomo solo al comando con la sua corte per rendere più efficiente una democrazia che intanto si smantellava?”. “Sembra strano – concludeva – ma anche il Congresso di Vienna fu influenzato da un grande politico di una nazione sconfitta, il francese Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, e il Talleyrand di oggi è quel Sergio Mattarella che fu vicesegretario e ministro di quel partito, la Democrazia cristiana, che, sconfitta da armi improprie, costruì l’Italia del Dopoguerra insieme ai partiti laici e socialisti lasciando crescere democrazia e benessere e sconfiggendo populismi e terrorismi [...]”. Pomicino è stato un protagonista della Prima Repubblica, e si può comprendere la sua nostalgia per quella stagione politica. Meno la sua esultanza per la fase che si è aperta con il governo Gentiloni, in cui egli scorgeva la possibilità di rinverdirne i fasti. Lo stesso riferimento al Congresso di Vienna (novembre 1814 - giugno 1815) mi pare una forzatura storica. La creatura di Klemens von Metternich, infatti, è inconcepibile senza le spartizioni territoriali e le forme di mutua collaborazione tra gli stati da lui volute in chiave antirivoluzionaria. Ora, se penso all’Europa, oggi non vedo l’alba della restaurazione non conservatrice auspicata da Pomicino. Vedo piuttosto una profonda crisi dell’edificio comunitario (a malapena tamponata dalla vittoria di Macron), che si consuma nell’esplosione di egoismi nazionali e ossessioni securitarie. Se penso all’Italia, poi, mi riesce difficile considerare il No al referendum costituzionale come il colpo di maglio all’èra dei partiti personali. Perché almeno la metà di quei diciannove milioni di voti che hanno respinto la riforma di Renzi appartiene a un movimento che vuole distruggere la democrazia delegata e i partiti (senza aggettivi), e in cui si celebra l’apoteosi dell’uomo solo al comando. Non so, infine, quanto Sergio Mattarella possa essere lusingato dal suo accostamento a Talleyrand. Figura certamente centrale nella vicenda europea del primo Ottocento, ma non proprio un simbolo di trasparenza e correttezza. Del resto, proprio allo “stregone della diplomazia” si deve una delle definizioni più brillanti e argute del tradimento: “La trahison n’est qu’une question de temps”. “Quando non cospira, Talleyrand intrallazza”, diceva François-René de Chateaubriand. In effetti, il camaleontico principe di Benevento era passato indenne – e sempre in posizioni di prestigio – dall’Antico regime alla Rivoluzione, dal Direttorio al Consolato, da Napoleone alla Restaurazione di Luigi XVIII, e poi alla monarchia di Luglio. Un artista del doppiogiochismo, anche se il suo gusto per l’intrigo e la sua passione per gli affari si accoppiavano con una capacità quasi rabdomantica di saper cogliere le linee di tendenza della storia. Ecco, proprio per il rispetto che si deve alla storia personale dell’Inquilino del Colle, un Mattarella che pugnala alla schiena Renzi e si allea sottobanco con gli ex democristiani per restaurare la Prima Repubblica (proporzionale secco, coalizioni a geometria variabile, spesa pubblica a gogò) faccio ancora fatica a immaginarlo.

Michele Magno

 

Al direttore - E’ vero, chiedere ai giornalisti di lasciar stare le carte di un’istruttoria è come chiedere al cane di non avvicinarsi alla salsiccia profumata. Eppure bisognerà provarci, proprio perché ci – uso ancora un noi corporativo – hanno ridotto a schiavi di Pavlov, a cani che scattano al solo sentire l’odore. Provarci, anche se la salsiccia fa parte della nostra matrice. E’ cominciata tanti anni fa, ci siamo dati tante giustificazioni, ci siamo detti che dopo l’intercettazione e prima di pubblicare si verificavano le cose che ne emergevano, che c’era un uso “professionale” delle carte del magistrato, ma poi abbiamo e hanno pubblicato i “ti amo” della moglie di un imprenditore al marito, le voglie di una ragazza per il vecchio Pacini Battaglia, fino alle serve guatemalteche e agli editing fantasiosi dell’intercettazione, la post intercettazione, la regia totale dell’agenda. Tonnellate di salsicce, fino a ridurre a un rudere il fegato del paese. Perché siamo diventati schiavi della salsiccia? Perché volevamo fare il Watergate, ma dal caso Montesi in poi abbiamo fatto solo battaglia politica. Anche l’abiezione di certe tempeste digitali su Facebook e Twitter vengono da qui, da un costume costruito in redazione e in procura, ma ne pagheranno i danni le piattaforme di comunicazione. Ce la prenderemo col ventilatore perché spande merda. E quindi aderisco alla tua proposta come a una battaglia radicale, direttore, e spero che l’idea non ti ferisca più di tanto. Ciò che hai proposto è un Satyagraha del giornalismo, un rifiuto unilaterale di ciò che è più necessario per la vita, rifiutando salsicce calde mentre altri continueranno ad abbuffarsene. Possono apparire perdenti, ma in genere sono battaglie che portano bene. Buon lavoro.

Vittorio Zambardino

Satyagraha del giornalismo mi piace molto. Benvenuto. E grazie.

 

Al direttore - Senza far nomi. Appare paradossale ma è sensato “The Right Left” I due lemmi storici non reggono più i significati ideologici nativi. Però è un po’ buffo, coglierne l’aspetto coincide con l’uso della ragione. Le cose da fare sono ben conosciute, lo sbudellarsi reciprocamente sul “come” è il perenne ostacolo al “farle”. Poiché nel “come” sono intrecciati, convivono interessi politici/sociali/economici/culturali, diversi e conflittuali, non potrà mai venir meno l’uso “politico” della loro distinzione. Il solo equilibrio possibile per “fare” si raggiunge mettendo in secondo piano lo scontro, un po’ infantile, della suggestione emozionale dei contrari: comunque descritti e connotati. Sembrerebbe semplice: niente è più complicato, irritante, eterogeneo, difficile, delle cose semplici. The Right Left, sarà avversato proprio per la sua semplicità. Una bella sfida, però.

Moreno Lupi

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