Sì, i veri poteri forti sono nelle procure. Ci scrive Paolo Ruffini

Al direttore - Neanche un accenno al ritorno del servizio militare e al Corriere è già nonnismo.

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Caro Cerasa, volevo farle personalmente i complimenti per il suo editoriale “Gogne e procure, i nostri veri poteri forti”. Io nasco in una famiglia comunista, sono consigliere comunale del Pd, laureato in Giurisprudenza, con un master in diritto tributario e, un tempo, ancor prima di prendere il titolo magistrale, manifestavo pubblicamente contro Berlusconi e contro le sue dichiarazioni sull’uso politico della magistratura. Ecco, credo di essere stato in grande errore. Preciso, non è che mi sono convinto di ciò dal suo editoriale ma il suo editoriale ha messo nero su bianco un pensiero che coltivo da tempo. Noto, tra l’altro, che questo accade sempre più spesso. Per tale ragione, per la sua linea editoriale, mi sono convinto a sottoscrivere l’abbonamento al Foglio. Grazie per il servizio al paese che sta facendo.

Marco Cavina

 

Benvenuto. E grazie.

  


 

Al direttore - Forse è solo una mia ansia, ma l’ottimo pezzo di Meotti sulla monocultura (il Foglio 17/5) fa intuire i rischi connessi alla democrazia diretta dei click. Va bene parlarsi e indignarsi in rete, va bene superare vecchi schemi e riti della politica, va bene superare la sinistra e la destra, ma non è che maggior potere agli stati d’animo, alle condizioni dello spirito e alla velocità dell’indice mi lasciano tranquillo.

Valerio Gironi

 


 

Al direttore - Leggo con piacere la bella risposta a Scalfari. Osservo che il giudizio sulle origini del grillismo (“Il grillismo è un derivato limpido e chiaro della sinistra scalfariana”), completamente condivisibile, conduce inevitabilmente a una alleanza post elettorale Grillo-Bersani, che a Roma è in piena fase sperimentale.

Attilio Colagrossi

 

Non accadrà perché Grillo non arriverà al governo non perché Bersani non voglia. Ma mi lasci aggiungere un piccolo dettaglio sulle responsabilità avute dalla sinistra scalfariana nell’alimentare quella bolla di giustizialismo che oggi nutre il mostro grillino. Secondo lei è secondario o no che Marco Travaglio sia diventato Marco Travaglio sulle pagine di Repubblica (1998, sotto Ezio Mauro) e dell’Espresso (1997)? Secondo me no, non è secondario e non è neanche casuale. E il problema non è che Travaglio sia Travaglio. Il problema è che il grillismo non nasce così per caso ma nasce perché è figlio legittimo di un disegno culturale che un pezzo d’Italia ha cullato per vent’anni con l’idea di sbarazzarsi per via giudiziaria di un nemico politico. Le conseguenze sono quelle che vedete ogni giorno sui giornali. E se per vent’anni si spaccia per cioccolato la melma (ovvero la gogna) non ci si può stupire se i lettori italiani non si indignino più di tanto se un giornalista oggi offre loro la melma (altra gogna) spacciandola per cioccolato. La melma è sempre melma anche quando va in faccia ai propri avversari politici.

 


 

Al direttore - Molto d’accordo con il suo editoriale, caro Cerasa. E’ tempo che l’opinione pubblica capisca che oggi la violenza politica non la si fa più col manganello, bruciando le sedi delle coperative rosse, mandando gli oppositori al confino, in manicomio o sotto terra. Questa violenza anti politica, anti partitica, anti sistema, è perseguita oggi con le più moderne, raffinate e micidiali armi della gogna mediatica, usando metodi incruenti capaci di far sparire dalla “scena civile” (suona male) senza più una goccia di sangue. Consegnandoti alla non visibilità, alla irrilevanza. E’ fascismo? Storicamente nulla si ripete. Semmai c’è un rinnovato profondo disprezzo per la democrazia, espressa nei modi di un odio per tutto ciò che sa di politica tradizionale, partiti, istituzioni. Ma allora si va verso una nuova dittatura? Certo che no. Semmai come in America, ma fortunatamente non in Francia, verso forme di populismo autoritario e pasticcione. E’ bene saperlo, è bene dirlo e non sottovalutarne la pericolosità.

Daniele Bartalesi

 


 

Al direttore - “Ti devi candidare a questo giro, perché tra cinque anni avremo un problema: la mia faccia!”. Con queste parole l’attuale Première Dame aveva previsto che il marito sarebbe diventato Monsieur le Président, ma aveva anche intuito il loro futuro insieme. Facciamo due calcoli. Siamo nel 2017 e a fine mandato sarà il 2022: lui 45 da compiere, lei 69. Sia che lo rieleggano oppure no, si paleserà la sua previsione. E che farà Brigitte? Per toglierlo dall’imbarazzo, lo lascerà. Lei, ma senza litigi: “Emmanuel, credimi, per te è meglio”. Lui annuirà, e giustamente distrutto, si metterà comunque con una di quindici anni di meno che vorrà un figlio, avendone 30, “amore voglio darti un erede”. Il che vuol dire che quando Macron ne avrà 60, la figlia (sarà femmina, vedrai), ne avrà 15 e sempre più spesso andrà a trovare quella donna che le ha permesso di chiamarla “nonna” senza esserlo: Brigitte, che ne avrà 84, e che le dirà: “tesoro, pensa: una volta io ero l’insegnante di recitazione di tuo padre, poi sono diventata sua moglie, poi la ex, e adesso ti dico la verità: sono stanca e faccio le marmellate…”. Un giorno, il più lontano possibile, Brigitte morirà circondata dall’affetto di tutti e subito dopo daranno il suo volto alla Marianne, con la sua faccia di quando conobbe Emmanuel, cioè quando ne aveva 39! “Oui, je suis Brigitte Macron!”. E io ti amo.

Riccardo Rossi

 


 

Al direttore - Parolaccia è il dispregiativo del termine parola. Tuttavia la parola è una scatola al cui interno c’è il significato. La confezione è importante ma conta di più di quello che si trova scartandola? Una parola non “accia” che sia volgare nella sostanza del significato è preferibile a una parolaccia goliardica e del tutto inoffensiva? E soprattutto la parolaccia è condizione necessaria e sufficiente alla volgarità? Quanto è volgare la censura? Quanto è volgare la distanza siderale che hanno gli adulti con i ragazzi a cui fingono di rivolgersi senza nemmeno scomodarsi a usare lo stesso codice? Mi capita spesso di tradurre i pensieri in immagini e se provo a visualizzare una parola, oppure una parolaccia, quello che vedo è una chiave. Mi si perdoni la banalità, ma le chiavi servono ad aprire delle porte, oltre le quali si possono trovare mondi sorprendenti, come quello che ho avuto il privilegio di conoscere l’altra mattina a “Condivido” – il progetto di Parole O_Stili parlando con centinaia di ragazzi straordinari che mi hanno “lasciato entrare”. Non mi interessa rispondere alle polemiche. Oggi, come ieri, trovo infinitamente più interessante parlare con quei ragazzi, ma soprattutto ascoltarli. Le battute, il linguaggio e l’ironia sono serviti a dire loro: “Fidatevi di me”. Mi hanno concesso la loro fiducia, una cosa preziosa, che per me vale molto di più di tutto il resto. Traghettati da quell’empatia abbiamo potuto confrontarci liberamente e autenticamente su temi importanti, come l’omofobia, il razzismo, la diversità, l’aggressività, e lo abbiamo fatto senza filtri e senza avere paura. Aver scelto questa chiave è stato incosciente da parte mia ma, a mio avviso, indispensabile: quello che abbiamo condiviso con i ragazzi di tutta Italia mi conferma che ne sia valsa la pena. Non usare un linguaggio comune, mettere una distanza tra me e loro, sarebbe stato volgare. Odio, intolleranza, omofobia, queste per me sono parolacce. Perché è giusto raccontare ai ragazzi che la violenza è merda. Se poi qualcuno vuole dire che la violenza è cacca… Ci sono parole poco allineate discutibilmente ironiche (ma chi decide cosa fa ridere e cosa no? Che male c’è a ridere con una parolaccia? Da Aristofane ai cinepanettoni la nostra cultura l’ha sempre fatto), poi ci sono le parole poco allineate, quelle tese a offendere, insultare e discriminare, che sono indiscutibilmente violente. Costruire una dialettica migliore non sta nel buttare fuori dalla classe i ragazzi che usano le parolacce, perché è nei corridoi che matura l’odio. I ragazzi non hanno bisogno di esclusione ma di inclusione. La maniera migliore per contrastare l’hating rimane sempre una carezza e un sorriso.

Le mie parolacce erano questo: carezze e sorrisi.

Paolo Ruffini

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