Evviva il Tap! I populisti? E se li chiamassimo rumoristi?

Al direttore - Ora Tap fino alla Scozia!

Giuseppe De Filippi

 

Salvini, Emiliano, Grillo. Finirà che, come la Tav, anche la Tap diventerà un piccolo spartiacque italiano del cialtronismo anti sviluppista.

  

Al direttore - “Dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”. Così scriveva Albert Camus ne “La Peste”. In Italia è un errore ricorrente. Vi ricordate la Lega nord “costola della sinistra”? Il nuovo campo di esercizio di questo errore è il Movimento 5 Stelle. E’ comprensibile, perché si tratta di un fenomeno sostanzialmente ancora da capire. E’ comprensibile, ma è sbagliato che un attore centrale della politica italiana sia osservato in maniera schizofrenica, tra demonizzazione e rimozione. Li chiamiamo “populisti”, o rammaricandoci di non aver individuato un termine migliore che non li associ al popolo, oppure prendendo le distanze, come se il “populismo” fosse una malattia, non dissimile dalla peste di Camus. Dovremmo concentrare i nostri sforzi nel tentare di trovargli un nome nuovo, perché questo può davvero, più di quanto pensiamo, indebolirne l’azione: per quanto diverse siano le esperienze degli estremisti olandesi, greci, tedeschi, francesi, austriaci, ad accomunarli è infatti – come dice bene Müller – il proporsi come unici legittimi rappresentanti del “popolo”. A una tale affermazione sottende l’idea del superamento delle logiche democratiche dell’alternanza: chiunque governi al posto loro lo fa per usurpazione, tradendo la volontà “popolare”. Come dovremmo chiamarli allora? Io propongo di chiamarli rumoristi e proverò a spiegare perché. Credo che una delle lenti più azzeccate per osservare la politica oggi sia proprio cercare di separare il segnale dal rumore. Per far questo, però, bisogna guardare bene dentro al rumore e sforzarsi di comprenderlo e, soprattutto, di distinguerlo dal segnale. Cerco di spiegarmi tornando all’esempio italiano: è ormai parte del senso comune l’idea che il Movimento 5 stelle sia culturalmente egemone. Ma è proprio così? O forse il pregiudizio che i politici siano tutti uguali (e magari ladri e corrotti) non è altro che il più grande rumore di fondo del nostro paese, che esisteva prima di Grillo ed esisterà ben dopo di lui? E se allora ribaltassimo la prospettiva? Il 5 stelle ha dettato un’agenda o ha invece preso il rumore di fondo e lo ha amplificato? Per chiarirci, io non sto negando l’utilità di un confronto, anche aspro, che stimoli una politica ancora molto costosa a morigerarsi. Mi sto chiedendo che cosa c’è sotto l’ideologia dell’essere puro megafono, puro portavoce: c’è, probabilmente, una politica dell’anemometro. Capire bene il vento, seguirlo, mettersi a soffiare nella stessa direzione. Qualcuno leggendo si chiederà: e quindi? Qual è il problema? Non dovremmo esserne felici? Non dovremmo imitarli? Prima di dare una risposta a questa domanda, bisogna pensare a come e dove vivono le parole della politica oggi: il marketing politico si produce soprattutto in rete, in tempo reale. “Twitter made it easier to spin” è il motto. Non è un caso che il cuore del Movimento 5 stelle sia un’azienda che si occupa esattamente di questo. Trasformare la politica in una gigantesca timeline, in cui la performance sollecita l’istinto così come un tweet o una foto su Instagram sollecitano un like, vuol dire distruggere il discorso pubblico. La psicopolitica, come la chiama il filosofo coreano Byung-Chul Han, è il grado zero della politica: la politica per istinto non esiste, non è politica, non è progettuale come non è progettuale un like su Facebook, non contiene alcun senso di eredità verso il futuro. Il marketing politico degli istinti ha ormai, purtroppo, contagiato anche i cosiddetti “partiti di sistema”, ma non c’è dubbio che tanti movimenti rumoristi in tutto il mondo v’indulgano oltre il ragionevole, tanto da creare, per esempio, un conflitto tra gli istinti e la scienza. Questo conflitto non infiamma solo la politica, non è solo un problema per i destini di Renzi o Di Maio. E’ una mina sui fondamenti della nostra società: è nichilismo reale, cioè una dittatura basata sull’esistenza di sole interpretazioni. Ma esistono i fatti, esiste la scienza a fondare la nostra società, molto più di quanto crediamo. Per chiudere con una parola che tutti capiamo bene: vaccini. Dopo aver parlato del “rumore”, vengo al “segnale”: sotto la superficie dei rumoristi nostrani. Alfredo Reichlin, nell’ultimo articolo della sua vita, ha letto nella fase politica attuale una riedizione della Repubblica di Weimar, ed è difficile non essere d’accordo. Non mi stupisco, quindi, che la geografia politica si mescoli, un po’ come si era mescolata negli anni 30 del secolo scorso, non mi stupisco che emergano nuove tensioni (alto - basso, aperto - chiuso, mercato - protezione) come dice bene Macron. Al netto di questa premessa, per cui mi aspetto che il Movimento 5 Stelle dica anche “cose di sinistra”, il suo nucleo programmatico è tipico delle destre sociali: stato sociale al limite dell’assistenzialismo (reddito di cittadinanza senza se e senza ma), sovranità e identità, chiusura verso i flussi migratori, ambiguità ai limiti della reticenza sui diritti civili. Che molto elettorato tradizionalmente di sinistra voti Movimento 5 stelle (come votava e magari vota ancora Lega) non fa certo del Movimento 5 stelle né un partito di sinistra né, meno che mai, una sorta di “nuovo centro”, come lo ha recentemente definito l’ex segretario del Pd. Mi è chiarissimo, tuttavia, che la campana suona oggi soprattutto per il mio partito: il Partito democratico. Se il Movimento 5 stelle è secondo molti sondaggi il primo partito d’Italia, se i giovani lo votano in percentuali impressionanti, vuol dire che il più grande partito progressista del paese (e d’Europa) ha moltissimo su cui riflettere. Ma quest’operazione parte dal dare il giusto nome alle cose, senza colpevolizzare, senza neutralizzare. E dal tentare non di assecondare o cancellare il rumore, ma si risolverlo in suono, in proposta, in risposta. Che è poi, in fondo, il senso della Politica.

Anna Ascani, deputato Pd

 

Francis Fukuyama diceva che il populismo è l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il sostegno dei cittadini. Oggi in realtà molte élite sono diventate populiste – pensi alla battaglia anti casta – ma il tema comunque resta. E il punto non è se chiamarle o no populiste (io le chiamerei così) ma è capire se sia possibile contrapporre un populismo buono a uno cattivo. Un populista buono tende a esercitare la leadership (guida il proprio popolo). Un populista cattivo tende a esercitare la followship (si fa guidare dai suoi follower). Direi che in fondo la differenza è tutta qui. E una classe dirigente che si rispetti non dovrebbe avere dubbi su quale dei due populismi sostenere.

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