Le parole di Benedetto XVI spiegano da dove nasce l'attacco all'Europa

Le lettere al direttore Claudio Cerasa di sabato 25 marzo 2017

Al direttore - L’11 marzo 1947, uno dei costituenti più celebri e autorevoli, Benedetto Croce, fece un lungo intervento, non col “nome impopolare di filosofo” ma da letterato, giudicando il progetto di Costituzione “opera non felicemente riuscita”, perché “scritta da più persone in concorso; [e] tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere”. A questa “prima cagione della mancanza di coerenza e di armonia” se ne aggiungeva un’altra ben più grave: che “i molti suoi autori […] non vi perseguivano un medesimo fine pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il governo, non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposizione d’animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua al suo mulino, grazie a compromessi sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti vaghi o contraddittori, [che] abbondano nel disegno di Costituzione”. Si dice che Massimo D’Alema, profondamente turbato dalla lettura di questo discorso, si accinga a chiedere altri sei mesi per la sua riforma costituzionale. Proroga necessaria per invocare l’aiuto dello Spirito Santo, così come fanno i cardinali in conclave quando pronunciano l’inno sublime: “Veni creator spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus!”.

Michele Magno


Al direttore - Caro Cerasa, sottoscrivo in toto le riflessioni da Lei svolte ieri a commento dell’ennesimo fatto di sangue targato Is, stavolta a Westminster, nel cuore di Londra. In particolare per aver(ci) ricordato, sulla scia del grande giurista e filosofo Böckenförde, che “una società dei diritti che si sostituisce ad una società dei doveri (è la storia dei nostri giorni) è destinata a mettere in campo un cortocircuito letale all’interno del quale lo stato liberale si svuota, diventa secolarizzato e tende a vivere di presupposti che non è più in grado di garantire”. Considerazioni che, da un’altra prospettiva, riecheggiano quanto ebbe a denunciare Benedetto XVI nel suo monumentale discorso al Reichstag di Berlino il 22 settembre 2011 (che per inciso andrebbe ripubblicato e affisso urbi et orbi). Il punto è questo: la concezione positivista della natura e della ragione oggi dominante nella coscienza pubblica, nella misura in cui relega l’ethos e la religione, in quanto considerate non scientifiche ovvero non verificabili o falsificabili, negli anfratti del soggettivo, rappresenta non solo una riduzione dell’uomo ma, anzi, minaccia la sua stessa umanità. Una situazione, agli occhi del grande teologo, assolutamente drammatica proprio in vista dell’Europa, “in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali”. Ecco, visto che oggi si celebrano i sessant’anni dei Trattati di Roma, forse non sarebbe male tornare a riflettere su che cosa l’Europa vuole davvero essere.

Luca Del Pozzo

 

In quel favoloso discorso di Benedetto XVI c’è un altro passaggio che oggi andrebbe ripreso e imparato a memoria. “La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico”. Il problema oggi è tutto qui: non solo celebrare la nostra indentità ma anche difenderla, soprattutto in questo momento storico in cui la democrazia europea si trova sotto attacco. Da un lato ci sono gli islamisti, dall’altro ci sono i populisti. Sveglia.


Al direttore - Il 20 marzo Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, dà un’ampia intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung: compiti della Commissione, insistenza di Schaeuble a far rispettare strettamente le regole, sostegno di Draghi, solidarietà dimostrata dai paesi del nord dell’Eurozona con i paesi in crisi. Alla fine, affermato che “come socialdemocratico ritengo la solidarietà estremamente importante”, conclude: “Ma chi chiede solidarietà ha anche dei doveri. Io non posso spendere tutti i miei soldi per alcol e donne e subito dopo invocare il suo sostegno. Questo principio vale sul piano personale, locale, nazionale e appunto anche europeo”. Martedì 21, ore 20.24: nell’Ansa di Bruxelles la frase in prima persona diventa “non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto”. E nel riassunto alle 5 del 22 diventa “I paesi del sud dall’Europa  spendono tutti i loro soldi in alcool e donne e poi chiedono aiuto”. Apriti cielo: dal minimo delle dimissioni al massimo di uscire dell’Europa, dalla greve allusione alle consuetudini olandesi quanto a consumo di alcolici e esibizione di donne, al malizioso “tutta invidia” di Prodi. (Manco uno che ricordasse “l’olandese lurco” del Falstaff). Una fake news? Certo: ma se la notizia era falsa non è che sia nata per caso. Non è che non ci siano ragioni se il redattore dell’Ansa ha istintivamente tradotto i “paesi in crisi” in paesi del sud (neppure nominati nell’intervista). La notizia falsa è la conseguenza di un fatto vero, la germanofobia che quotidianamente e in dosi massicce ci viene somministrata: dalla polisemia debito/colpa di Schuld, al salvataggio delle banche, ai nostri Npl contro i loro derivati, al profitto in termini di cambio tratto delle nostre sventure. Perfino il “deutsch und echt” nel finale dei Meistersinger, nella allusiva regia della Scala, suscita preoccupanti sospetti.

Oggi a Roma, i rimpianti per le speranze deluse di 60 anni fa dovrebbero accompagnarsi con un esame di coscienza. Forse proprio tra quelli che più hanno parlato di ever closer union si trova chi ha diffuso gli stereotipi che la rendono impossibile.

Franco Debenedetti

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