La sinistra rimpianta da Mauro ha un solo difetto. Indovinato quale?

Redazione

    Al direttore - A New York, alla fine della parata per il Columbus Day, abbiamo incontrato alcune ragazze con i cartelli contro Colombo: “Columbus the first terrorist in history”. Sorridendo ho provato prima a parlarci e poi a stringere loro la mano, ma hanno rifiutato entrambe le cose. Erano ragazzine, e non me la sono presa. Fatto sta che un nostro illustrissimo concittadino del passato qua viene dipinto (anche) così. Viva l’Italia e Cristoforo Colombo. E abbasso il politically correct.
    Umberto Mucci

     

     

    Al direttore - E così, a sentire le dichiarazioni del dopo direzione Pd, le minoranze sono tutte latte e miele: votiamo No al referendum, dicono, ma le sorti del governo Renzi non ne dipendono e noi, del resto, non ci pensiamo neppure a lasciare il Pd, ch’è la nostra casa, la scissione sarebbe una cosa insensata, un danno per l’Italia. Votano No al referendum, dopo aver votato tre volte Sì a testa in Parlamento e fregandosene allegramente di un miliardo di risoluzioni del partito, i membri della minoranza Pd. Ma non se ne andranno, dicono, nemmeno con una pistola puntata alla tempia. E, anzi, sono fermamente convinti che Renzi debba restare al suo posto di capo del governo anche se vince il No, risultato che non solo si augurano ma per il quale, in forme diverse, si batteranno così da vedere di riprendersi il partito (si sono mai visti illusi di tal fatta?). Fossero stati ai tempi di Togliatti-Berlinguer, di cui ogni giorno illuminano gli altari, sarebbero stati accompagnati energicamente alla porta da quel dì. Intendiamoci, hanno ragioni da vendere tutti costoro, perché dove vanno, una volta usciti? A fare la fine di Fassina e Civati? Cosicché anche del pensoso e sofferto Cuperlo si possa domani dire: Cuperlo chi? E allora conviene segnarci il tempo e l’occasione, a noi osservatori interessati: sta andando in scena la più incredibile e impunita e inesausta e esosa delle sovversioni delle regole di un partito e della stessa democrazia. Perché Renzi, che non è un fesso, non concederà mai a questa gente l’aureola del martire. Non ora, almeno. Io spero però che ci sarà spazio, più tardi, per una riconsiderazione politico-culturale a tutto campo che faccia finalmente chiarezza a sinistra. Perché questa di Bersani & C. è francamente una sinistra ormai non semplicemente insopportabile, giudizio ovviamente soggettivo del sottoscritto, ma fuori del tempo e addirittura contro il tempo – e questo è invece il giudizio già emesso e certificato dalla storia.
    Roberto Volpi

     

    Ezio Mauro ha ragione a segnalare, come ha fatto ieri su Repubblica, che esiste una deriva identitaria del Pd. La deriva esiste. Bisogna vedere se chiamare deriva un cambio di rotta e se è giusto oppure no ma comunque esiste. Ma c’è un piccolo problema: la mutazione del Pd è avvenuta non per capriccio di qualcuno ma perché nel 2013 1.895.332 persone hanno votato Matteo Renzi alle primarie per evitare che il Pd registrasse lo stesso fallimento ottenuto dal Pd guidato da Bersani e fortemente sostenuto dallo stesso giornale diretto da Ezio Mauro. Quell’idea non è stata superata in nome di un tradimento di valori antichi. E’ stata superata per una ragione ammessa candidamente da Ezio Mauro nel maggio del 2015 durante un’intervista a Dogliani: “Io ho un’idea di sinistra molto diversa da quella di Renzi, ma sospetto che con la mia idea la sinistra non vincerebbe mai mentre con quella di Renzi sì”. Serve aggiungere altro?

     

     

    Al direttore - Come è strana la vita. Nella veste di presidenti della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida si segnalarano per lo zelo con cui cercavano di ammaestrare la stampa all’idea che la Consulta fosse estranea al circuito politico e mediatico della dialettica tra i partiti e tra gli organi politici: a conferma, basta leggere i loro resoconti annuali sulla giurisprudenza costituzionale pubblicati sul sito della Corte. Ora i due presidenti emeriti si segnalano per essere in prima fila nell’agone referendario, persino con iniziative attive sul piano giudiziario. Strana la vita a voler cercarne la coerenza.
    Giuseppe Di Leo

     

     

    A direttore - Viste le prime due puntate in anteprima di “The Young Pope”. E’ una bomba. Non mi interessa se sia una serie tv o un lungo film. E’ una cosa da lasciare senza fiato. C’è il corpo bellissimo altero narciso di Jude Law, la sua intransigenza evangelica. E c’è il corpo curvo bolso curiale di Silvio Orlando, segretario generale garante dello status quo ma con una sua ambigua propensione al bene.
    E c’è il Vaticano come campo di una battaglia ideologica tra un Papa che fa della sua fragilità esistenziale una spada d’acciaio per richiamare gli uomini alle loro responsabilità. Un Papa inflessibile, quasi disumano, che ama Dio e non le sue creature, come se queste fossero il frutto corrotto di una degenerazione antropologica. Sorrentino sconvolge il mainstream di un Vaticano come location del puro intrigo politico. E porta il discorso più in alto, tra cielo e terra. Senza rinunciare ad alludere a una lotta senza esclusione di colpi: il Papa che chiede al confessore di fargli da spia dei peccati altrui. Magnifica la sobrietà al tempo stesso modernissima e quasi controriformista del giovane Papa, quasi una versione opposta e complementare all’accoglienza pauperistica di Francesco. Un Papa che fuma. L’unico americano che lo fa con voluttà e senza sensi di colpa. E siamo solo alle prime due puntate…

    Paolo Repetti