I migranti? Non possiamo non essere merkeliani. Non possiamo non essere Cameroniani

Redazione

    Al direttore - Ricordo che il Foglio, a proposito della posizione tedesca sull’economia e la finanza pubblica in Europa, ha scritto a suo tempo, parafrasando una nota affermazione di ben più alto livello, “Non possiamo non essere merkeliani”, suscitando un interessante dibattito. Ho letto ora la Sua risposta, di sostanziale apprezzamento, ad alcune lettere sull’atteggiamento voluto innanzitutto dalla cancelliera per l’accoglienza di rifugiati e migranti. Continua, dunque, a valere anche per questa delicatissima materia il “Non possiamo non essere”? Sarebbe, però, difficile sostenere che intanto si può assumere quest’ultima posizione in quanto si mantiene quella sull’economia. Può anche ritenersi, con qualche sforzo, come si sostiene sul Foglio dell’8 settembre, che tra le due posizioni non vi sia contraddizione, ma certamente non può dirsi che per comportarsi nel modo assai apprezzabile nei confronti dell’epocale problema delle migrazioni, come sta facendo Angela Merkel, si debba essere, come “condicio sine qua non”, assertori della linea di politica economica del governo tedesco. Non penso che si voglia in tal modo scegliere “fior da fiore”, ma semplicemente è opportuno il “distingue frequenter”.
    Con i più cordiali saluti.

    Angelo De Mattia

     

    Non possiamo non dirci merkeliani oggi così come non potevamo non dirci merkeliani ieri. Merkel è sempre Merkel e ne siamo pazzi. Se sui migranti però l’Europa prendesse lezioni anche da Cameron (la pace si fa con la guerra) sarebbe un bene non solo per il nostro continente ma anche per tutte le regioni da cui i migranti scappano ormai da anni.

     

    Al direttore - Che le sinistre sposino a tutto campo le bandiere migrazioniste non è un mistero. Consonanza con le posizioni della chiesa a parte, non è che questa loro simpatia manifesta nasca anche dal retaggio della loro cultura? Dal vedere nei migranti il nuovo proletariato, e dalla insensibilità verso la difesa di tutto ciò che ha il sapore di occidentale, frutto a sua volta di un internazionalismo transculturale e dalla identificazione occidentale uguale borghese?
    Antonio Maranca

     

    Al direttore - Gli occhi sono puntati sulla Cina perché ha svalutato la sua moneta del 3,46 per cento al primo settembre 2015 rispetto a un anno prima (6,36 contro 6,14 /1 del dollaro). Ma se consideriamo la dinamica dei cambi prima della svalutazione cinese, per esempio al 22 luglio 2015, abbiamo le seguenti svalutazioni rispetto al dollaro: euro 19,5 per cento, Giappone 18,5 per cento, Malesia 16,5 per cento, Sudafrica 14,5 per cento, Indonesia 14,1 per cento, Sud Corea 11,4 per cento, Messico 19,8 per cento. Non si può certo imputare alla Cina di essere all’origine delle modifiche in corso che si spera proseguano solo con variazioni, anche di rivalutazione, lente e marginali sia in Cina che negli altri paesi.
    Ascanio De Sanctis  

     

    Al direttore - Ogni volta che vengono diffusi i dati positivi sul Jobs Act, sarebbe sempre bene rammentare chi sta pagando l’onere delle assunzioni. Ogni nuovo contratto genera un ammanco annuo fino a ottomila euro nel fondo previdenziale dei lavoratori dipendenti. Perché i neoassunti, che maturano fin da subito il loro accantonamento ai fini della pensione, per i primi tre anni non versano all’Inps neppure un euro, così da alleggerire lo stipendio lordo a carico del datore di lavoro.  La situazione peggiora nel caso di trasformazione di contratti già in essere, che poi riguarda la maggioranza dei nuovi rapporti a tempo indeterminato, poiché il suddetto ammanco si aggrava del mancato versamento dei contributi legati al precedente rapporto di lavoro a termine. Per questo motivo, ai doverosi ringraziamenti agli imprenditori che assumono e al governo che li sostiene, è bene aggiungere quelli ai lavoratori dipendenti che sopportano con i loro contributi il peso previdenziale per la stabilizzazione e l’impiego dei colleghi meno fortunati.
    Marco Lombardi