Perché “Game of Thrones” è l'ultima serie che possiamo guardare collettivamente

L’ottava stagione della serie e il ruolo fondamentale della produttrice esecutiva Bernadette Caulfied

Mariarosa Mancuso

La donna che sussurrava a Jamie Lannister. L’attore Nikolaj Koster-Waldau era sull’orlo di una crisi di nervi, sul set di “Game of Thrones”. Problemi personali, subito disinnescati da Bernadette Caulfied, produttrice esecutiva della serie (sì, ha lo stesso cognome del giovane Holden di Salinger, ma non sono parenti; il leggendario adolescente già odiava Hollywood, figuriamoci cosa penserebbe di Hbo). “La persona migliore che poteva capitarci”, hanno scritto in una mail gli showrunner David Benioff e D.B. Weiss. Il cast non è da meno, a cominciare dalla regina dei draghi Daenerys Targaryen – saldamente nel nostro cuore dalla prima notte di nozze con il Khan Drogo, quando insegnò al fascinoso bruto un po’ di kamasutra.

 

“Produttore esecutivo” non è un mestiere che fa sognare, in un paese di artisti e di aspiranti registi, già la sceneggiatura da noi viene considerata poco o nulla. Ma in un’impresa titanica come “Game of Thrones” – l’ultima stagione ha fatto il record di spettatori, negli Stati Uniti e in Italia dove va in onda su Sky Atlantic – è chi rende possibili le cose, trasportandole dalla pagina allo schermo. George R. R. Martin, che ha scritto la saga “Cronache del ghiaccio e del fuoco” all’origine della serie, non ha questi problemi. Scrive “draghi volanti sputafuoco” con la stessa facilità con cui l’abbiamo scritto noi, e lo stesso vale per i combattimenti con gli orsi, o per le scene di massa.

 

Bernadette Caulflied deve trovare l’orso, convincere l’attrice a recitare con lui, far disegnare i dragoni (che non sono mica tutti uguali, qui sono particolarmente eleganti, si capiva dalle uova), ordinarne la costruzione nel reparto effetti speciali o inserirli in post produzione, dopo che la scena è stata girata con un segnaposto per il drago feroce. Deve organizzare fino a cinque unità di regia, al lavoro in Spagna, in Croazia, in Islanda sotto la tempesta di ghiaccio. Deve organizzare migliaia di comparse. Deve sussurrare all’orecchio degli attori, magari alle tre del mattino, dopo mesi di lavoro al freddo della notte: “Ci sarebbe da discutere la prossima battuta in lingua dothraki”.

 

Lo racconta Emilia Clarke al New York Times, che in vista dell’evento – oltre al solito riassunto delle puntata precedenti, alla guida per chi ha smarrito la trama, alle scommesse su chi alla fine conquisterà il Trono di Spade – dedica un ritratto “alla più grande produttrice vivente”. Chi ha visto il primo episodio dell’ultima stagione sa già che almeno una delle ipotesi è caduta sotto il peso di una rivelazione. E sa cosa mangiano i draghi. Mangiano quel che vogliono, ma al momento stanno un po’ a stecchetto. Sta per arrivare il momento in cui bisognerà scegliere tra un drago pasciuto e un esercito numeroso. Però volano, e Jon Snow ne approfitta per una romantica cavalcata, aggrappato alle scaglie.

 

Per il titolo “serie che ha cambiato la storia della tv” gareggiano molte concorrenti. Di sicuro, dalla prima puntata di “Game of Thrones” (era il 2011) la storia della televisione è cambiata per conto suo, non solo per l’eccelsa qualità di certi prodotti. “House of Cards” di Beau Williamson (con Kevin Spacey, ne hanno cancellato anche la memoria) arriva su Netflix nel 2013 e butta all’aria la scansione settimanale – con il carico di ragionamenti e interpretazioni che avevano fatto la fortuna di “Lost”. L’ottava stagione di “Game of Thrones” potrebbe essere l’ultimo appuntamento collettivo. Vale la pena di godersela, prima di tornare a chiudersi nella bolla dell’algoritmo.

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