Noia Romanoff

Mariarosa Mancuso

Matthew Weiner non ripete il miracolo di “Mad Men” nella nuova serie Amazon (per ora)

Ma che fate, vi accanite? Non basta che Damien Chazelle nasconda nel ripostiglio le scarpe bicolori da tip tap per dedicarsi a Neil Armstrong con “First Man”, la storia del primo astronauta che mise piede sulla luna (ci sono andati, sicuro, anche se i manifesti del film, alla Mostra di Venezia, lanciavano “l’impresa impossibile”, schiacciando l’occhio ai negazionisti). Ora fa i dispetti anche Mattew Weiner, dedicando una serie ai Romanoff (su Amazon, gli episodi 1 e 2 dal 12 ottobre, gli altri sei di venerdì in venerdì: nulla è più nuovo, ormai, della cara vecchia somministrazione settimanale).

 

I Romanoff – e le fantasie sulla piccola Anastasia la figlia dello Zar, sopravvissuta alla fucilazione bolscevica – stanno abbastanza in fondo perfino nella lista delle cose che NON ci interessano, e invece sembrano vantare schiere di appassionati. Ci fanno sbadigliare più delle virtù del silenzio, più dell’oro perduto di Benito Mussolini (chi lo sa? magari Antonio Scurati conosce il ripostiglio segreto, lo svelerà nell’ultima riga dell’ultimo volume della trilogia “M. Il figlio del secolo”), più del linguaggio dei delfini, più dei libri che sulla fascetta promettono “un’intensa scrittura femminile”.

 

Però Matthew Weiner è Matthew Weiner. Ha scritto per “I Soprano”, ha avuto la sua storia di mezzo insuccesso – “Mad Men” non la voleva nessuno, finì alla AMC che non aveva mai prodotto una serie. E’ stato accusato di comportamenti inappropriati, per aver detto a una donna che lavorava con lui “dovresti farti vedere nuda” (i garantisti attendevano l’entrata in campo di Cristiano Ronaldo, per disquisire di sottigliezze giuridiche). Ha rivelato la magia del Carrousel che proiettava le diapositive, la difficoltà di pubblicizzare i fagioli, la destrezza dei ragazzini capaci di preparare un Tom Collins con la ciliegina.

 

Una bella apertura di credito l’aveva, nonostante i Romanoff – colpa della maledetta convinzione che gli showrunner bravi rendono interessante qualsiasi cosa. E nonostante la notizia che aveva girato gli episodi in paesi diversi: quando i discendenti dello Zar di tutte le Russie si disperdono hanno il mondo intero a disposizione. Oltre ad Anastasia, potrebbe essere sopravvissuto il fratello Alessio, che scatena meno fantasie (un guantino dello zar fa la sua apparizione nel romanzo di Rosa Matteucci “Tutta mio padre”). Quindi abbiamo guardato le prime due puntate, sperando che si ripetesse il miracolo di “Mad Men”.

 

Durata un’ora e mezza. Così da far dire – è una mania – “l’ho pensato come un film, va visto come un film”. Idea bizzarra: le serie erano belle perché erano meno noiose di certi film. Se adesso fate le serie noiose, a episodi lunghi come un film, forse ci ripensiamo. Se poi la lentezza finisce per diventare un merito, e come tale viene celebrata, va a finire che torniamo la sera a leggere i romanzi dell’Ottocento, loro sì che sapevano come si fa. “The Violet Hour”, ambientato a Parigi, racconta una ricca aristocratica di nome Anastasia. La mattina sventola il croissant davanti alla musulmana con il velo che si prende cura di lei: “Lo vedi? Questo lo abbiamo inventato dopo avervi sconfitto a Vienna”. In “The Royal We”, racconta un doppio adulterio. Il marito in città – con la scusa di far parte di una giuria popolare”. La moglie in crociera, dove son tutti discendenti dei Romanoff. Unica zampata: la famiglia dello Zar Nicola messa in scena dai nani, con il nano Rasputin che insegue Anastasia. Per colonna sonora, la “Danza delle spade” di Khachaturian.

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