Killer seriale

Mariarosa Mancuso

“Mindhunter” (Netflix) parte senza botto e fa perdere la pazienza. Ma non è da buttare

Non è finito il primo episodio di “Mindhunter” e già abbiamo visto la faccia di David Berkowitz, serial killer soprannominato “Son on Sam” (così si firmò in una lettera inviata al capo della polizia, non lo trovavano e lui stuzzicava le forze dell’ordine). Fu arrestato 40 anni fa, d’agosto. Spike Lee ne ricostruisce gli omicidi e la cattura in “S.O.S. Summer of Sam - Panico a New York”. Non è finito il primo episodio di “Mindhunter”, e nelle lezioni per aspiranti negoziatori dell’Fbi viene proiettato “Quel pomeriggio di un giorno da cani” di Sidney Lumet (da un caso di cronaca nera avvenuto del 1972: i rapinatori non trovarono nulla in cassa e presero gli ostaggi). Non serve un profiler particolarmente abile per capire che “Mindhunter” – su Netflix dal 13 ottobre – punterà sulle citazioni e sui criminali entrati nel pop.

 

 

  

David Fincher produce (e dirige qualche episodio, su dieci che compongono la prima stagione). Vanta un ricco catalogo, in materia: basterebbero “Zodiac” e “Seven”. Lo sceneggiatore Joe Penhall aggiunge massicce dosi da “Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme. Il cocktail non sempre funziona. Più spesso regala al protagonista – il negoziatore in crisi Holden Ford (un criminale con ostaggio si è appena fatto saltare le cervella dopo il breve scambio che avrebbe dovuto ammansirlo) – un sovrappiù di ingenuità. Il giovanotto ha avuto l’idea di parlare con i criminali più feroci – era la fine degli anni Settanta, neppure si chiamavano serial killer (solo Jack lo Squartatore, per Scotland Yard). Vuole entrare nella loro mente per scoprirne le motivazioni, dando origine alla trame che ormai ha invaso ogni thriller, prima al cinema e poi in tv. Ma quando va a parlare con il gigante che ha massacrato la propria mamma e altre donne infierendo sui cadaveri – uno che parla forbito, e ha già dato prova di saper manipolare gli agenti – serve molta buona volontà per credere alla frase “gli tolga le manette”.

 

Può anche darsi che la scena sia successa davvero, non abbiamo letto il libro “Mind Hunter: Inside Fbi’s Elite Serial Crime Unit” di Mark Olshaker e John E. Douglas, modello per Holden Ford e a Bill Tench, suo compagno d’avventura (il montaggio di motel, sigarette, tavole calde, solitudine tra maschi fuori casa, è girato splendidamente). Ma uno sceneggiatore non la può scrivere, dopo i duetti tra Hannibal Lecter e Clarice Starling. A meno di saperla fare meglio (non succede). Ingenuo anche il primo motore che conduce il negoziatore Holden all’università. Ha conosciuto una figlia dei fiori piuttosto carina, scambiandola per un’attivista delle Pantere Nere. Lei chiarisce che le Black Panther studiano ingegneria; non sociologia, in particolare Émile Durkheim, al capitolo “devianza generata dalla società”. Tra un ammicco e l’altro, convengono che dopo un presidente ucciso, il Vietnam e il Watergate gli Stati Uniti sono terreno fertile. Il professore barbuto in abito di velluto invece parte da Cesare Lombroso, e dalla sua scientifica classificazione. Vanno a letto, e parte la scaramuccia. “Era un orgasmo vero o finto?”, chiede il negoziatore? “Dovresti saperlo, se no come fai a capire se un sospettato dice bugie?”, ribatte la figlia della controcultura. Si metteranno d’accordo sul fatto che le femmine sono diverse dai criminali.

 

“Una volta in caso di morti ammazzati bastava cercare il marito o il socio in affari, ora non sappiamo più perché la gente uccide”. Il rimpianto dei profiler viene adottato dagli spettatori delle serie tv. Una volta partivano con il botto, oggi devono carburare. E scappa la pazienza.

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