Will per tutti

Mariarosa Mancuso

Lo Shakespeare di Shekhar Kapur è un po’ esagerato, ma finalmente gli rende giustizia

L’inglese è l’unica lingua che consente a un indiano di parlare a un altro indiano senza offenderlo”. Così rispose Salman Rushdie a chi gli rimproverava di aver scritto nella lingua dei colonizzatori “I figli della mezzanotte” (e poi i “Versetti satanici”, che con la fatwa scagliata da Khomeini sullo scrittore avrebbero dovuto insegnarci qualcosa, ma allora non sapevamo esattamente cosa). Shekhar Kapur, nato a Lahore nel 1945, sta in scia: allo scoccare dei 70 anni dall’Indipendenza indiana (e della divisione tra India e Pakistan che incombe su tutti i romanzi angloindiani) produce e dirige una serie tv dedicata a William Shakespeare.

 

Il regista è recidivo. Nel 1998 aveva diretto “Elizabeth”, con Cate Blanchett nella parte della Regina Vergine. Nel 2007 aveva girato il seguito “Elizabeth: The Golden Age”, appunto l’epoca del drammaturgo che nessuno ancora è riuscito a superare in bravura (Elisabetta I è sempre Cate Blanchett, con l’armatura da Giovanna d’Arco, a completare la trilogia sarà “Elizabeth - The Dark Age”, attualmente in pre-produzione).

 

William Shakespeare era il tassello che mancava dal puzzle. E c’era da vendicare “Shakespeare in Love” di John Madden, sciaguratamente premiato con l’Oscar. “Non ho i soldi per comprarmi la carta”, dice il giovane Will arrivato a Londra dalla provincia, lasciando a Stratford-upon-Avon la moglie e i bimbetti. Meno male, vien da dire: nel film il drammaturgo in crisi appallottolava e buttava via i fogli uno dietro l’altro, tipo redazione giornalistica americana anni 40. “Scrivi sul retro di questi fogli”, gli dicono. Un po’ rasserenati possiamo affrontare anche in “Will” – dallo scorso 10 luglio per dieci puntate sul canale TNT, Turner Network Television – la scrittura in diretta: arriva la bella fanciulla, sgorgano versi d’amore da registrare sulla pagina. In fondo, che ci vuole?, basta dar sfogo al poeta che è in noi.

 

 

Secoli di sforzi accademici, con il contributo dei registi e degli attori teatrali, hanno ingessato Shakespeare. E del resto scrive in una lingua che neppure gli attori americani capiscono, rende noto Al Pacino nel suo “Looking for Richard” (il deforme Riccardo III che George R. R. Martin e la coppia Benioff & Weiss hanno preso a modello per il nano Tyrion Lannister in “Game of Thrones”). “Will” gli rende giustizia. E anche un po’ esagera: il pubblico dei teatri londinesi era popolare e chiassoso, in platea succedeva di tutto, ma non era punk come Shekhar Kapur li dipinge – anche letteralmente – nei primi episodi.

 

Nelle osterie si tenevano slam poetici in pentametri giambici, altro dettaglio un po’ fantasioso. Magnifica e fedele invece la ricostruzione degli spettacoli prima di William Shakespeare. C’erano uomini travestiti da donna – l’abitudine resisterà, era vietato alle femmine calcare le scene, e il perfido Will costruirà i suoi drammi proprio sugli equivoci e i travestimenti. C’erano battutacce, comici star, balletti volgarotti, una gran caciara, attori vestiti da angeli o da pastorelle. I copioni erano intercambiabili, spesso rimaneggiati sul gusto del pubblico che “vuole solo divertirsi” (si lagna l’impresario dopo aver contato l’incasso).

 

“Dietro ogni grande drammaturgo c’è un grande delitto”, suggerisce la serie. E come “Game of Thrones” delizia con gli anacronismi. Il waterboarding inflitto dai protestanti ai cattolici. I calzoni in pelle nera da locale gay anni 80. Le occhiate assassine lanciate al giovanissimo e leggiadro Will – l’attore è Laurie Davidson – dal già affermato Marlowe.

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