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Saloon e storytelling

Mariarosa Mancuso
Altro che filosofia. A Westworld i visitatori vogliono fanciulle da stuprare e banche da rapinare.

Fango sulla memoria del vecchio west. Altro che pionieri, cercatori d’oro, cacciatori di scalpi. I visitatori di Westworld cercano fanciulle da stuprare, magari dopo averne ucciso i genitori. Il parco che invece dei dinosauri propone saloon e banche da rapinare fa da sfondo alla serie Hbo in onda dal 10 ottobre su Sky Atlantic. “Westworld - Dove tutto è concesso” è il sottotitolo-con-aiutino.


Poco amanti del western, abbiamo sperato in un parco giochi che concedesse altre fantasie (finora non sono arrivate, abbiamo perso le speranze). A ricca consolazione, una serie d’autore – Jonathan Nolan fratello di Christopher e J J Abrams di “Lost”, più Michael Crichton, che nel 1973 aveva scritto e diretto “Westworld” (titolo italiano “Il mondo dei robot”) – da proporre in luogo del manuale di filosofia. Libero arbitrio, coscienza, memoria, sogni, intelligenza artificiale, uomini e macchine, caverna di Platone e genio maligno di Cartesio (pure i simulacri, se avete snobbato Kant e conoscete solo Baudrillard). Il catalogo è questo.

 



 

In aggiunta, “Westworld” sviscera appassionanti questioni letterarie. Lo storytelling, per esempio. Pratica che in Italia tutti amano odiare, non sapendo bene cosa sia, e l’hanno fatta diventare sinonimo di “menzogna”. Come si possano odiare i narratori di storie, e amare invece le serie televisive con la passione che avevano i lettori ottocenteschi per i romanzi dickensiani – resta una contraddizione in seno al popolo di internet (che, interrogato, si dichiara postmoderno e anche di più).

 

Vista la tradizione di cui “Westworld” si fa carico – senza annoiare neanche un po’ – non tutto risulta nuovo di zecca. I robot che esaudiscono i desideri (maschili) erano già in “La fabbrica delle mogli” di Ira Levin (gli dobbiamo anche il romanzo da cui Roman Polanski ricavò “Rosemary’s baby” e quello sui cloni di Adolf Hitler intitolato “I ragazzi venuti dal Brasile”, tutto negli anni 60 e 70). Nel ridente villaggetto di Stepford, Connecticut, le mogli sono devote e sempre sorridenti. I saggi mariti le hanno sostituite con robot programmabili.

 



 

Nel racconto “Pastoralia”, George Saunders racconta la vitaccia dei figuranti a libro paga in un parco a tema “preistoria”: devono vestirsi di stracci – tipo Jurassic-maglia – e scuoiare capre. A Westworld, in un futuro non meglio precisato, hanno risolto il problema con magnifici robot. Accuratamente progettati dagli ingegneri, seguono un canovaccio narrativo studiato da uno che ha manie di grandezza (neppure gli si può dare torto: “Lo scrittore sta al romanzo come Dio sta alla creazione”, sosteneva Gustave Flaubert). Ogni giorno – ogni loop – si fanno ammazzare e violentare. Basta riazzerarli in laboratorio, e tornano in pista come nuovi.

 

Questa la teoria. La pratica funziona meno bene. I “forestieri” esigono dai “residenti” sempre di più (si favoleggia di un altro e più profondo livello di gioco, ma non ci sono cartelli che mostrano il cammino). Gli abitanti cibernetici ogni tanto si inceppano, o dormono sonni agitati (sanno cosa è un incubo, nel caso restassero tracce della programmazione precedente). Lo scienziato richiama spesso per il tagliando la pioniera carina, e le regala “Alice nel paese delle meraviglie” (non servono i ritrovati della tecnica: nel mito greco Pigmalione si innamorò di una statua d’avorio). La splendida fanciulla che accoglie i visitatori alla domanda “tu sei vera?” risponde: “Se non lo capisci da solo, che differenza fa?”. Bel modo per liberarsi di “Matrix” e dei suoi dilemmi, pillola rossa o pillola blu. Se la bistecca virtuale è buona come quella vera, che differenza fa?

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