“Sei uno di noi”

Mariarosa Mancuso
Nella quarta stagione di “American Horror Story” i mostri arrivano in tutto il loro splendore

Gli scrittori d’America, lo confessino o no, sognano il Grande Romanzo Americano, di volta in volta identificato con “Le avventure di Augie March” di Saul Bellow, “Pastorale americana” di Philip Roth, “Underworld” di Don DeLillo, “Glamorama” di Bret Easton Ellis, “Le correzioni” di Jonathan Franzen. “American Horror Story” è la controparte televisiva sul fronte del brivido. Scritta e prodotta da Ryan Murphy (orrore precedente in curriculum: la chirugia plastica di “Nip/Tuck”) con Brad Falchuk (orrore precedente in curriculum: gli adolescenti sfigati che in “Glee” si riscattano con il musical), ha preso il via nel 2011.

 

Per teatro, una villa maledetta che sinistramente riuniva un campionario di sciagure.  A vederla, stava tra il motel di “Psycho” e la casa Usher di Edgar Allan Poe. I proprietari erano morti malamente. La vicina avvertiva: “Se entrate là dentro ve ne pentirete”. I nuovi inquilini arrivati a Los Angeles dalla East Coast erano lì per ricominciare. Mai farlo dove le porte scricchiolano, le cantine e le soffitte sono depositi di vecchie fotografie, i cani abbaiano al nulla, i sonni della ragione generano mostri che ricordano il Fantasma dell’Opera. Un appartamento ancora olezzante di vernice, con i serramenti in alluminio anodizzato sarebbe più adatto. Battaglia persa, comunque, come convincere i protagonisti dei film horror a non passeggiare di notte nei cimiteri.

 

Nella quarta stagione di “American Horror Story” (su Fox), i mostri arrivano in tutto il loro splendore. Di nuovo la serie funziona per accumulo, dai “Freaks” nel film di Tod Browning – con la canzoncina “sei uno di noi, sei uno di noi” che accoglie la cacciatrice di dote, tremenda arriverà la vendetta contro la bionda fedifraga – ai fenomeni da baraccone che fecero ricco P. T. Barnum. Passando per il saggio di Leslie Fiedler, anche questo intitolato “Freaks” (Garzanti, nella vecchia collana blu): dalle donne barbute arriva fino ai fricchettoni anni Settanta modello Joaquin Phoenix in “Vizio di forma”, che rivendicarono fieramente il termine. Per le fotografie di Diane Arbus (le sue gemelline sono  riprese da Stanley Kubrik in “Shining”). Per “Il compleanno dell’Infanta” di Oscar Wilde: la storia di un nano regalato alla principessina di Spagna, prezioso giocattolo vivo e parlante, finché vagando per i corridoi del palazzo vede la propria immagine in uno specchio e muore di crepacuore.

 

Non era una rarità. Il palazzo dei Gonzaga a Mantova aveva un appartamento per i nani di corte, fino ai primi decenni del Novecento le esposizioni universali (antenate dell’Expo) esibivano esseri umani di interesse etnografico: pigmei, watussi, esquimesi con l’igloo. il saggista francese Olivier Razac, in “L’écran et lo zoo”, sostiene che da lì ai protagonisti (consenzienti) del Grande Fratello e degli altri reality il passo è brevissimo. Non siamo granché progrediti, in materia.

 

La donna barbuta con figlio mani di chela

 

Nella fantasmagorica sigla sfilano così tante bizzarrie e scherzi di natura che va guardata più volte per prendere nota di tutto (sì, anche due scheletri scopanti, in un kamasutra macabro). Kathy Bates coraggiosamente compare come donna barbuta, suo figlio ha le mani a chele e arrotonda il magro stipendio del circo facendosi pagare dalle signore per una toccatina. Il clown con il ghigno sta tra “L’uomo che ride” di Victor Hugo e “It” di Stephen King. Jessica Lange, in completo azzurro e ombretto intonato, canta “Life on Mars” di David Bowie. Peccato per il lifting e le punture di botulino, la fanno sembrare più mostruosa delle sorelle siamesi, litigiose perché una vorrebbe fidanzarsi e l’altra restare casta.

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