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Sapienti lunari

Umberto Silva

Le sfide si rivelano doni, le riuscite cadono e le cadute si ergono nel tempo. Sempre

Quindici anni prima di sapienti lunari, ci fu R. L’entrata di R. nel mio studio analitico è – era, ma sempre è – spavalda e insicura. Si guarda attorno, allunga il collo come un leptosauro, scruta, annusa, il suo corpo è esile ma teso, le gambe vanno per conto loro. Si accorge di essere guardato e sorride, imbarazzato. Colpisce. Colpisce la luce che ferisce il suo volto, la sua stranezza è di quelle che affascinano. Piccolo, magro, stempiato, le ragazze lo chiameranno Rospo… prima di concedersi a lui, ai suoi denti affilatissimi. La segretaria lo guarda un tantino severa, lui si mette sull’attenti, una mano gli sfugge in una lieve carezza, poi parte a razzo verso il mio studio… imbroccandone un altro, dal quale esce a mo’ di anatra, ridente e stupito, di nuovo ammiccando alla ragazza.

 

Rimane in silenzio, un tempo infinito. Lo sguardo al cielo, R. cerca un’ispirazione divina. Alza l’angolo sinistro della bocca, il ghigno beffardo tradito da uno sguardo ebete, e viceversa. Riesce a fare una cosa e il suo contrario allo stesso momento. E’ antichissimo R., modernissimo. Parla, dice cose poco udibili che m’incuriosiscono: nascondono qualcosa, qualcosa che attrae proprio perché nascosta, al pari degli antichi tesori aztechi. Il tesoro di R., come tutti i veri tesori, non va carpito con cupidigia, si precipiterebbe nel vuoto; va piuttosto partecipato, in un ascolto che sa attendere, che coglie innanzitutto nella reticenza dell’analizzato la disperazione e l’ispirazione che può sospingerlo al passo. Se R. si nasconde, se nasconde un tesoro, significa che il notes magico del suo inconscio è in movimento; contrariamente al luogo comune il nascondimento non è l’immoto ma il moto più incessante; l’uomo che si nasconde fa un gran bel rumore, nascondersi è mostrarsi; viceversa, mostrarsi, esibirsi, è un modo di nascondersi. Per presentarsi, R. agita le braccia, in un movimento arcaico e artistico; quando si accorge di esagerare sospende le braccia nell’aria, in una composizione egizia, e per un po’ le lascia così, finché a capo chino le ritira, pudicamente. E si fa serio. Così almeno mi sembra, ora, ma a quel tempo chissà, forse sorrideva anche in quell’ultimo rassegnato movimento; ora mi pare serio, ma si sa che col tempo le immagini mutano, i sogni, i ricordi, e tutto quel che concerne la scena dell’analisi è sogno. E’ proprio R., un femmineo tempio egizio; non quelli che ancora si stagliano nel deserto, piuttosto i tempietti neoclassici scolpiti dal Canova, templi funebri che introducono in un buio assai attraente. R. m’induce a entrare in quel tempio, nella sua testa cubitale, e mi stringe la mano con violenza, quasi a trattenersi al di qua dello Stige aggrappandosi a me, a dirmi che non è morto, che non è l’uomo malinconico con cui forse teme il paziente di doversi configurare nella sua prima seduta. In un incerto balbettio, aiutato dal muovere spiritato delle mani, dice parole che non ricordo. “Riuscirò a deluderla, Prof.”.

 

Sono passati anni e anni. Uno schiaffo? Una carezza? Le sfide si rivelano doni e viceversa, le riuscite cadono e le cadute si ergono nel tempo. Ho preso la penna stanotte per chiedermi: “Davvero sono riuscito a deluderlo? E lui a deludere me? Ci siamo delusi l’un l’altro o c’è una riuscita non prevaricabile da una delusione, la delusione stessa essendo una riuscita? E l’illusione, che parte ha?” Anni dopo R. partì per Roma, per sempre, la città dalla quale io ero partito per il nord. Per caso, quel caso che si chiama destino, più volte tornavo dal dal nord a Roma e una mattina incontrai R. al braccio di una bella ragazza, olandese precisò balbettando a suo modo. Tenere una ragazza al braccio era per lui infilarsi in lei dappertutto. Così felice di vedermi che mi baciò la mano e palpandola le disse: “Ecco, Lui è Lui”, e lei annuì con aria rassegnata, tipica di una donna quando il suo amato passa le giornate raccontandole sempre la stessa cosa: la sua epopea psichica. Conoscendo R., immagino che gliele abbiano ripetute un centinaio di volte, le epopee, troppo per una biondina olandese. Difatti un mese dopo si mise con una mora romana assai più pronta ad ascoltarlo, che poi lasciò per una toscana dalla lingua veloce e così via. Quel che so è che quando vado a Roma, per quanto la città sia immensa, me lo trovo spesso davanti, R. Gli chiedo cosa fa, con voce incomprensibile nomina lavori incomprensibili, ma ha ereditato dal nonno, può permettersi ogni incomprensibilità. Gli anni passano, anche lui invecchia, ma è sempre eguale, sempre quel sorriso, quel riso, quel buio ove il suo dolore si cela, e si coccola. Salutandolo butto lì qualcosa sulle macabre elezioni di questi giorni, potrebbe ghignare in modo superbo, ma quando muove il collo R. è già oltre.

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