Mario Mafai, paesaggi di Roma

Corpo borghese

Umberto Silva

La pesante delusione dei sapori della vita nel libro di Giorgio Montefoschi, sulla scia di Flaubert

Quante parole vane in questa patria buffona, parliamo d’altro, di Isidore Ducasse conte di Lautréamont che in misteriosa controtendenza al proprio demonismo decretò che la migliore prosa era quella dei professori di liceo. Giorgio Montefoschi punta a quell’imperturbabile scrittura ma non vi approda, resta uno studente sgobbone, l’Idiot de la famille scrive Sartre, la sterminata famiglia della letteratura di cui Montefoschi occupa uno dei punti più ciechi, e visionari al contempo. Sulla scia del geniale testone di Gustave Flaubert, Montefoschi spartisce e gusta la pesante delusione dei sapori della vita; se i suoi personaggi frequentano i riti del benessere in modo così insistito da incorrere nel malessere, rimane pur sempre una testa dura e dolente che disdegna le aspirine.

 

Montefoschi diffida dell’autocelebrazione con cui si cerca di mettere a tacere il disagio; sebbene io non l’abbia mai incontrato di persona, lo vedo passeggiare lungo una spiaggia e sento Montefoschi imprecare: “Sono tutti intelligentini oggidì, io sono e voglio essere un cretino, nient’altro che un cretino!”. Ecco un grande scrittore, di cui apprezzo il viaggio e il silenzio. Giorgio Montefoschi è entrato nella letteratura dalle cineree finestre dechirichiane, della magione ha preso possesso e lì ristà, nell’ombra, a guardare i personaggi che si muovono esattamente come non si muovono. L’ostinato pellegrinaggio di Giorgio Montefoschi per le vie romane, certe vie, il mesto indugiare della sua penna sui portoni dei palazzi, sugli avvocatizi interni, arredi arresi a infinite stanchezze, la sua famosa maniacalità che un tempo suscitava il riso d’irrisori critici, fin da subito mi rilasciò una sensazione di verità assoluta. Le impotenti immagini di montefoschiana potenza e le incessanti ripetizioni dell’identico si sedevano, e tuttora si siedono, attorno al tavolo del mio pensiero religiosamente consumando il pesante pasto. Dalla volta che in un suo romanzo lessi di un rivolo di pipì che correva nel letto di una coppia di sposi trascinandoli nello Stige della senilità, quell’immagine ancora oggi mi avvince in un sacro e reale sigillo dell’Essere e del Nulla.

   

Niente da fare, egregi moralisti, nessun ammicco, nessun secolarismo e cedimento ne ‘Il corpo’, ma un libro di estenuati dialoghi dal basso tono e dall’elementare linguaggio, senza indulgere nella radicalità beckettiana, non ce n’è bisogno. Un’accurata noncuranza rende il tutto ancora più Finale di partita, una partita che non finisce mai: chiuso il libro, quei dialoghi che sembravano spossati e in cerca di riposo interrogano il lettore, lo inquietano. Colmi di pietà gli antichi autentici borghesi ci sorridono dalle stinte fotografie che sormontano le lapidi dei cimiteri; lungi da lontani fasti, la classe sociale oggi apostrofata con tale nome è piuttosto un gruppo disomogeneo di liberi professionisti della libera noia.

 

Il dolore che Montefoschi ci mostra risulta avvertibile solo quando flebilmente si manifesta nella fatuità. Giovanni, lo s-tormentato protagonista de ‘Il corpo’, parla per noia, scopa per noia, lascia la moglie per noia, torna dalla moglie per molta noia, va in montagna per noia, per noia immagino leggiucchi il grande Moravia, la cui noia non ha confini. Montefoschi ha il coraggio di riportare per intero un infinito quanto vuoto dialogo, il coraggio chirurgico di creare tagliando: se la frase pronunciata dal marito ben poco vuol dire, Montefoschi non lo punisce, anzi, dona un’umana eleganza a quel misero nulla, mai cercando di trasformarlo in qualcosa di orrendo. L’incontro carnale è descritto come un lungo elenco di azioni, perché così è. La dimensione che meglio definisce questo pallido e anti-eroico nichilismo che nulla ha da spartire con quelli di un tempo, è la vacanza della vacanza: la vacuità. “Un aereo diretto verso sud ha lasciato un’esile striscia d’argento. ‘Si sta bene al Rid’ mormora Giovanni. Ma lo sa che il tempo è finito”, ma chissà, il tempo del pensiero forse non è mai iniziato, forse è finito per sempre, forse è appena cominciato, forse è sempre stato vivo, forse c’è nel non esserci e non c’è nell’esserci, forse qualcuno ascolta e qualcun altro piange, forse la notte è senza fine, o il giorno, o entrambi, forse Montefoschi scrive il suo sogno mentre i sogni scrivono lui, forse…

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