Il delirio per spiegare una canzone, la politica e l'arte dell'esserci

Umberto Silva

Il flusso di coscienza di un paziente 

Si stende sul lettino, serenamente.

 

Memory, questa romantica canzone che tutti noi ricordiamo – beh non proprio tutta, giorno dopo giorno mi pare di ricordare sempre meno, un po’ perché invecchio ma soprattutto perché ricordare mi sembra strano, direi assurdo, forse anche falso. Mi sembra assurdo ad esempio che ogni giorno si possa pensare che un tizio vinca le elezioni, mi sembra una cosa strana, quando le vince mi sembra fuori dal mondo, tutto è un po’ fuori dal mondo sebbene ogni giorno, tanto per far qualcosa, ci si dice che crollerà tutto, Trump eccetera, e così via. Più le cose sembrano palpabili più si fanno impalpabili, più si profila la fine di Kim e compagnia, più paiono già finiti da tempo, senza lasciare traccia. Ma anche Trump, nonostante tutto il casino che fa per stare a galla, sembra già sparito anche se non lo è, anche se fa di tutto per esserci, e c’è, sicuramente c’è, ma quel dire sicuro pare il colmo di un’insicurezza senza freni. E tutti noi ci diamo da fare per darci un qualcosa, ad esempio una conversazione degna, e in effetti c’è una discreta conversazione, anche se a pensarci bene, dopo o prima, non si dice proprio niente, un niente simpatico, per carità, un niente che conforta, certo meglio delle rabbie e insulti con cui si spacca un tavolo, ma forse no, forse spaccare un tavolo va ancora bene, andava ancora diciamo, e adesso va, ma non è la stessa cosa, forse è meglio, ma chissà se siamo sempre lì, nel nulla.

  

Abbiamo capito, insomma, qualcosa ancora capiamo, capiamo a nostro modo, naturalmente, ma capiamo, e questo dice che siamo ancora vivi, sebbene si possa dubitarne, i grandi Pascal e Cartesio dubitavano, e questo dubbio era la cosa migliore di loro e di tutti, dubitare è magnifico, dubitare della propria esistenza è necessario, pensate solo se dubitassimo dell’esistenza di certi esseri, saremmo fritti, dovremmo ammettere che non esistono pur esistendo, un incubo incessante. Esistono, non solo come possono esistere loro ma anche come possono esistere gli altri, la cui esistenza è qualcosa d’inconcepibile eppure gloriosamente esistente, nel senso che non esiste ma ne guarda la possibilità. Se guardo un bambino, mio figlio per dire, ecco che sento che esiste e anch’io, accidenti, lo sento eccome, finché non lo sento più, non perché non lo sento ma perché non mi sento, eppure sarei un buon padre, anche se non ottimo, e anche lui, se esistesse nella mia paternità.

 

Forse mi sto spiegando male, ma non credo, penso semplicemente di dire quel che credo, anche se nessuno può davvero dirlo, quel che crede, dal momento che crede è impossibile, ma ci prova, e in questo c’è la nostra forza, diciamo la nostra esistenza, alla quale ci aggrappiamo e anche no, sì perché no, stavo per mollare la presa e invece la sento più forte di prima, nel senso che mi prende e non mi lascia, mi tiene a volte rabbiosa a volte felice, felice io di tenermi alla presa, e vedo il bambino che mi guarda e mi sento sicuro grazie alla sua esistenza, la sua insistenza. Le nostre unghie, ad esempio, la sanno più lunga di noi e questo ci dice quanto siamo versati in certe cose, quei cosi, non è facile dirli, sono cosi e basta, ma se li si prende per un certo verso, se li si tira, ecco che parlano e ci dicono tante cose, quali nemmeno noi potremmo dirle, al massimo possiamo sentirle, il che non è del tutto ragionevole, intendiamoci, è tuttavia quel che è, naturalmente, né più ne meno, sempre che il nostro destino di esseri in qualche modo si compia, un modo che alcuni pensano di sapere ma in realtà non sanno, ovvero sanno ma non pensano di sapere ovvero pensano ma… c’è sempre quel ma, che impedisce alla gente, a me ad esempio, di dire la mia invece che la sua, che naturalmente non esiste in questo modo come io e tutti non esistiamo, che se esistessimo un simile modo non esisteremmo o forse sì, l’idea di non esistere è davvero dannata, alla fin fine, alla fin fine io esisto, Lo deve ammettere anche se io no, non lo ammetto ma però sì, e quindi lei ne tenga contro, professore”.

 

Certo che ne tengo conto; le parole di questo mio nobile paziente sono una soave musica, una musica carica del miglior delirio, delirante ma sempre una musica che conduce al pensiero e a una forte ebrezza. Fino allo spasimo il paziente vive la sua pazienza e la sua impazienza, nelle mie lunghe notti, anch’io mi darò al migliore delirio, là dove i fiori del siriaco Ibisco nascono nella mia testa che rincorre giardini lontani.

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