Il cielo, che celo

Umberto Silva
La grammatica celeste, così oscura anche da docenti, e quei bambini siriani senza maestri.

Sul lettino oggi lo psicoanalista. Tra tante tragedie e schifezze, gentile l’autunno porta sempre qualcosa di bello, la scuola. Quei ragazzi che pieni di vita entrano ed escono dalla scuola, quelle fanciulle che cerchiamo di capire nei loro moti più misteriosi, siamo noi, noi psicoanalisti. Se evitiamo d’interrogarci intorno a quella che è stata la nostra infanzia e giovinezza, c’impediamo d’intendere con chi e di cosa stiamo parlando. Occorre umiltà e ascolto di quello che diciamo e pensiamo; quando ebbri di sapere pontifichiamo sull’altrui esistenza, diventiamo quello psicanalista frettoloso che pensa di poter donare all’altro… senza avere aperto i pacchi natalizi che da misteriose terre a lui giungono. Come aiutare un ragazzo difficile senza prima avere incontrato quella difficoltà che è il tesoretto di ciascuno? Aggirando la difficoltà si ristagna nell’onnipotenza, la trappola per topi, quella che porta un genitore, uno psicoanalista o un professore a ordinare: ‘Fai così, devi farlo, devi stare attento, devi, devi, devi…”. Quanti ragazzi, per colpa di quel terribile verbo ‘dovere’, si sentono espropriati del desiderio e rigettano ogni progetto.

 

Incontrare lo sguardo di un ragazzo è ripiegarsi sul proprio volto, ritrovando qualcosa di un ricordo, di un disaccordo o di un musicale accordo, qualcosa che ci appartiene e ci accarezza, o ancora ci brucia. Professori e psicoanalisti dallo sguardo umano tali saranno ricordati dai ragazzi per tutta la vita; docenti che imponendosi avranno voluto fare “i maestri di vita e di morte”, per tutta la vita e oltre dai ragazzi saranno esecrati. Il rancore e la vendetta rilasciano un forte godimento, che però è infernale. Ora parlo un po’ di me. Confesso che più di ogni romanzo adoro le autobiografie, penso che sia un dono assai utile per gli altri… parlare di sé, anche perché non si parla mai veramente di sé, più si pensa e ci si accanisce a parlare di sé, più Altro irrompe nella scena che si crede propria, e ci fa ballare. Uno di quei balli sfrenati, incontrollabili, che dopo un po’ ti senti sudare e ti chiedi dove provenga tutto questo, dal momento che fino ad allora ti credevi tu il conduttore. La tanto ambita padronanza è pronta a giocare atroci beffe, teniamo sempre presente l’ammonimento di Freud: “L’Io non è padrone in casa propria”.

 

La prima emozione scolastica la incontrai a undici anni, in prima media. Fu spaventosa, come sono le cose davvero necessarie e improrogabili: mi accorsi di essere analfabeta. Ero vissuto in campagna arrampicandomi sugli alberi, mamma temeva che a scuola mi prendessi qualche terribile malattia, alla fine dell’anno scolastico la maestra veniva a trovarmi e mi dava tutti dieci. Quando ci trasferimmo a Milano, mia madre mi mandò a scuola dai gesuiti e così, tra una polmonite e l’altra causate dal trauma dell’analfabetismo, cominciai a studiare. Certe parole e sillabe rimasero tuttavia sempre misteriose. Cielo si scrive con la i o senza? Ancora oggi tentenno, la grammatica della volta celeste mi è oscura. Non l’emozione che mi diede un gesuita quando per la prima volta mi disse ‘bravo’, e divenni così bravo che tre anni dopo feci scivolare sotto la sua porta dieci paginette in cui confutavo l’esistenza di Dio. Un’arroganza imperdonabile, di cui lui subito rise e io un po’ più tardi, quando cominciarono a spegnersi gli stolti anni di piombo e l’ideologia cedette il passo alla poesia.

 

Una lode a vuoto

 

Per farmi perdonare della mia ignoranza, che in realtà era la mia vera sapienza, insegnai Psicoanalisi all’università, intanto continuavo a scrivere la parola cielo con la i e senza i, una volta uno, il cielo aperto, una volta l’altro, il celo che cela, che nasconde; le stelle mi marcavano con la matita blu. All’esame mi si presentò una ragazza che divinamente parlava di Freud e con piacere le diedi trenta e lode. La sua amica nulla sapeva e nonostante ciò pretendeva un trenta e lode, forte del fatto che avevano studiato insieme lei e quella brava, in lunghi pomeriggi in cui si erano interrogate a vicenda. Divenne verde di rabbia quando le feci notare che non erano la stessa persona. Ma lei disse che sì, lo erano, e mi guardò con occhi infuocati. Quegli occhi erano davvero infuocati, le diedi la lode… senza il trenta, una lode a vuoto, per i suoi occhi, e lei sorrise, soddisfatta.
“Au revoir les enfantes, arrivederci ragazzi” dice alla sua scolaresca il prete dello straziante film di Louis Malle, avviandosi alla morte per mano nazista. Lo dice con un tono sobrio e insieme amoroso che ogni volta che quel saluto mi echeggia nelle orecchie resto senza parole. E udendo il silenzio dei centomila bambini siriani seppelliti sotto le loro scuole bombardate, penso che mai certe parole troverò davvero. E il cielo celerà fino in eterno il suo arcano mirabile e spaventoso.

Di più su questi argomenti: