Claudio Martelli e Giovanni Falcone (foto LaPresse)

L'oracolo di Ciaculli

Giuseppe Sottile

Nessun giornalista va più in quella borgata ad alta densità mafiosa per capire come hanno votato i boss

Aristide Carabillò, che è un poeta di strada, continua a definire quella collina a ridosso di Palermo con una parola tanto cara al sommo Leopardi: aprica. “Il guardo steso nell’aria aprica mi fere il sol”. Ma Ciaculli non è solo una borgata di luce e fiori allegri. Certo, nella delicata geometria dell’esistenza, a queste terre toccò in dono anche il mandarino tardivo, che è una rarissima qualità di agrumi, ma le case che lì si ammucchiano come un presepe si portano dietro, da oltre cinquant’anni, una terribile maledizione: la mafia.

 

E’ un presepe macchiato di sangue, Ciaculli. E lo è fin dal 30 giugno del 1963 quando in una di quelle strade fiammeggiate dal sole esplose un’Alfa Romeo “Giulietta” imbottita di tritolo. Nell’attentato morirono quattro carabinieri, due militari dell’esercito e un sottufficiale della polizia. Li attirarono in quella trappola alcuni boss in ascesa – Michele Cavatajo, Gerlando Alberti, Tommaso Buscetta – che poi avrebbero dato la colpa alla cosca avversaria, quella dei cugini Greco, per sbaragliarla definitivamente e conquistare così, con la prima strage di mafia, il vertice della “cupola” di Cosa nostra.

 

Da quel giorno infame, ogni volta che si parla di Ciaculli scrittori e giornalisti aggiungono un’annotazione: “Borgata ad alta densità mafiosa”. E non solo per la strage del ‘63. Ma anche perchè Ciaculli fu, alla fine degli anni Settanta, il regno di Michele Greco, detto il Papa, condannato all’ergastolo nel maxi processo istruito da Giovanni Falcone. E fu anche il teatro di una singolare, inedita liturgia mediatica. Dopo ogni elezione, tutti i giornalisti coraggiosi – quelli dalla schiena dritta, va da sé – correvano all’ufficio elettorale del comune per controllare, a una a una, le schede appena scrutinate e stabilire, con la sonora retorica che il caso richiedeva, se la mafia aveva votato per questo o quel partito, se aveva sostenuto questo o quel candidato, se aveva puntato più su un seggio della Camera o su una comoda poltrona del Senato. 

 

Ciaculli era diventata la cartina di tornasole con la quale identificare i confini del bene e del male, delle complicità e delle contiguità, degli accordi sottobanco e degli intrighi ignobili e malavitosi. L’esame di quelle schede non era solo un modo per criminalizzare – aggratis, direbbero a Palermo – i novemila abitanti della sventurata borgata. Era anche uno spudorato attrezzo di scena che consentiva all’infaticabile gruppo di giornalisti coraggiosi di lanciare sul palcoscenico della gogna l’esponente politico che, dentro l’urna di una sezione elettorale, avesse malauguratamente raccolto più di cento voti.

 

Ne sa qualcosa Claudio Martelli, a quel tempo vicesegretario del Psi craxiano, che ebbe l’infelice idea di candidarsi a Palermo. Erano gli anni delle persecuzioni antimafiose, delle reductiones gesuite di padre Ennio Pintacuda e di Leoluca Orlando, l’alunno prediletto. Erano gli anni in cui si teorizzava “il sospetto come anticamera della verità”; e se un povero disgraziato si azzardava a sollevare il dubbio più innocente di questo mondo veniva subito bollato come fiancheggiatore della mafia.

 

Furono proprio gli squadroni di Orlando e Pintacuda quelli che azzannarono per primi Claudio Martelli. Aiutati dall’indomito plotone di giornalisti coraggiosi – quelli dalla schiena dritta, va da sé –, i giustizieri dell’antimafia contabilizzarono le schede di Ciaculli ed emisero la terribile sentenza: Martelli è stato votato dalla mafia, Martelli è l’uomo di riferimento delle cosche. Al vicesegretario del Psi, mascariato e sputtanato, non rimase altra via se non quella di abbandonare in fretta e furia Palermo.

 

Ma il gioco selvaggio su Ciaculli continuò anche negli anni successivi. Ebbe una battuta d’arresto solo quando il masaniello Leoluca Orlando diventò, con un’elezione che fu quasi un plebiscito, sindaco di Palermo. I giornali, soprattutto quelli del nord, in quei giorni si astennero dal solito pellegrinaggio nelle sezioni della borgata “ad alta densità mafiosa”. Solo qualche cronista locale – il solito teppistello – ebbe l’improntitudine di chiedere al nuovo sindaco come mai avesse raccolto una valanga di consensi anche dentro il presepe maledetto. Lui non si tirò indietro: ebbe qualche minuto di imbarazzo, ma subito dopo inpennacchiò una risposta talmente alta e altisonante che i fraternissimi giornalisti non ebbero alcuna difficoltà a scriverla nelle loro menti con i caratteri d’oro: la mafia si era di colpo convertita all’antimafia. Proprio così.

 

Post Scriptum. Nei giorni del trionfo grillino – giorni compresi tra il 5 e il 7 marzo – nessun giornalone ha dato contezza dei voti scrutinati a Ciaculli. Avremmo potuto raccoglierli noi, ovvio. Ma qui al Foglio, si sa, di giornalisti con la schiena dritta non se ne vedono più da tempo. Siamo tutti un po’ ingobbiti, anche dall’età.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.