L'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo dove si svolgono le udienze del processo sulla presunta trattativa (foto LaPresse)

La “svolta buona”. Promosso dal Csm il pm che disse no al teorema della Trattativa

Giuseppe Sottile

Nel 2012 Paolo Guido non firmò l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sulla Trattativa. Ora diventerà procuratore aggiunto di Palermo. Sconfitta l’antimafia chiodata

Per carità, il processo sulla presunta Trattativa tra i boss e alcuni apparati dello Stato è ancora in piedi: nell’aula bunker dell’Ucciardone le udienze si susseguono regolarmente e se tutto andrà per il verso giusto a fine anno la Corte di Assise dovrebbe emettere la sentenza. Ma il clima, bisogna pur dirlo, non è più quello di cinque anni fa, quando Antonio Ingroia, procuratore aggiunto e regista della mastodontica inchiesta, richiamava a Palermo giornalisti di ogni genere e qualità per cantare non solo le sue lodi ma anche e soprattutto quelle di Massimo Ciancimino, il ragazzo di mafia trasformato per l’occasione in una “icona dell’antimafia”. Oggi di quei furori e di quelle esaltazioni non resta più nulla. E il tempo ha bruciato anche quasi tutte le icone incontrate dentro e fuori dal Palazzo di giustizia: Ingroia, descritto come il più coraggioso tra i magistrati coraggiosi, ha tentato l’avventura politica e dopo il flop elettorale alle nazionali del 2013 ha trovato rifugio in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal fraternissimo amico Rosario Crocetta, governatore della Sicilia; mentre Massimo Ciancimino, erede del terribile Don Vito, sindaco mafioso di Palermo e spalla in doppiopetto dei sanguinari corleonesi, è finito in galera non solo per avere spacciato patacche durante gli interrogatori resi davanti a Ingroia, ma anche per avere nascosto nel giardino di casa ventitré candelotti di tritolo: una santabarbara in grado di fare saltare in aria l’intero palazzo.

 

Ma la sconfitta più bruciante di quella allegra stagione si annida – ironicamente, beffardamente – nell’ultimo dettaglio. Il Consiglio superiore della magistratura, una volta tanto, ha deciso di non inseguire il vento dell’antimafia militante e ha promosso al grado di procuratore aggiunto di Palermo quel Paolo Guido che nel giugno del 2012, mentre Ingroia batteva in lungo e in largo i talk-show televisivi per declamare la bontà della sua inchiesta e preparare la discesa in campo, ebbe la forza e la dignità di non firmare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sulla Trattativa. A suo avviso non c’erano le prove necessarie per affrontare il giudizio in Corte d’Assise, e dunque era meglio fermarsi lì. Gli altri titolari del procedimento – da Ingroia a Nino Di Matteo, da Francesco Del Bene a Lia Sava – furono ovviamente colti di sorpresa e tentarono in ogni modo di neutralizzare gli effetti di quel no. Ma non ci fu verso. Paolo Guido tirò dritto per la sua strada e, umilmente, si mise a disposizione dell’ufficio. Non indossò gli abiti del martire e neppure quelli dell’eroe, non rilasciò né dichiarazioni né interviste e, come tutti i sostituti della procura, accettò ogni incarico che l’ufficio riteneva opportuno affidargli: dalle indagini, molto delicate, sulla latitanza e le complicità di Matteo Messina Denaro a quelle ordinarie su furti, rapine, truffe e ogni altro reato che, soprattutto di questi tempi, finisce per turbare la sicurezza e la serenità dei cittadini.

 

La sua promozione a procuratore aggiunto – paradossalmente Guido andrà a occupare il posto che fu di Ingroia – sta anche a dimostrare che all’interno della magistratura maturano nuove coscienze. Nessuno sembra più disposto a giocarsi l’anima e la carriera su teoremi campati in aria. E l’esercito di coloro che, con le sentenze, avrebbero voluto “riscrivere la storia d’Italia” è ormai al lumicino: nelle stanze del Palazzo di giustizia di Palermo si contano al massimo quattro o cinque reduci. Tutti gli altri stanno lì a combattere la mafia con i tanti strumenti messi a disposizione dalla legge e ad amministrare la giustizia. Senza fughe in avanti, senza veleni e senza compiacimenti.

 

E’ la “svolta buona”, verrebbe da dire ricordando che, assieme a Paolo Guido, il Csm ha nominato altri tre procuratori aggiunti di “nuova generazione”: Sergio Demontis, Ennio Petrigni e Marzia Sabella, la pm che nel 2006 catturò Bernardo Provenzano, il boss dei corleonesi latitante da 43 anni. Nessuno di loro ha avuto a che fare con l’inchiesta sulla Trattativa né con quella fetta di antimafia chiodata che da cinque anni insulta e mascarìa chiunque osi sollevare un dubbio sulle verità teorizzate da Ingroia e dai suoi fraternissimi sostenitori.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.