Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando (foto LaPresse)

La Matrioska di Palermo

Giuseppe Sottile

Pd e centristi di Alfano si alleano, rinunciano al proprio simbolo e si accucciano con Leoluca Orlando

Il professore Aristide Carabillò – che è un francesista ‘ntiso soprattutto dalle parti di Ballarò – vorrebbe ovviamente buttarla in letteratura. Sparge uno sguardo alato sui Quattro Canti fino al palazzo del Municipio e, masticando amaro, ti rivolge la stessa domanda che Louis-Sébastien Mercier ripeteva con un gemito davanti alle rovine di Parigi: “Que deviendra Palerme?”. Già, che cosa diventerà Palermo?

 

Leoluca Orlando, che è il sindaco uscente, risponde con la flemma di chi è sicuro di vincere. “Siamo in pieno rinascimento”, dice. E così dicendo elenca minuzioso e implacabile i miracoli della sua amministrazione: “Fino a qualche anno fa Palermo era in mano alla mafia. Oggi appartiene ai cittadini che la amano e la rispettano”.

 

Lui, Leoluca, è lo stesso di trent’anni fa, con il ciuffo ghibellino appiccicato sulla fronte e con l’aria del professore che ha studiato a Heidelberg. Non grida più, come gli capitava negli anni Ottanta, lo slogan forcaiolo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”. Non insegue più come un chierico vagante le predicazioni giustizialiste del gesuita Ennio Pintacuda e non coltiva più l’ambizione di trasformare la sua antimafia in un partito politico. Trent’anni fa era l’uomo della rottura, delle contrapposizioni, della lotta tra la nuova Dc e i vecchi patriarchi dello Scudo Crociato, da Salvo Lima a Vito Ciancimino. Oggi è l’uomo che tutto unisce e tutto assorbe.

 

Seduto come un gigante buono sul trono di Palazzo delle Aquile consente a tutti – a tutti i partiti che bussano alla sua porta – di salire educatamente sulle sue ginocchia e di accucciarsi comodamente sotto le sue ali. A una sola condizione però: che nessuno pretenda di scendere in campo con il proprio simbolo. “Affare fatto”, ha risposto il Pd, rinunciando alla bandiera tricolore e alla parola “partito”, nuovo dèmone delle genti. “Veniamo anche noi”, hanno echeggiato i centristi di Angelino Alfano e di Pierferdinando Casini.

 
Altro che miracolo. Nel giro di pochi giorni la Sicilia – da sempre considerata un laboratorio della politica – ha partorito una nuova formula: né centrodestra né centrosinistra, ma solo una coalizione incolore e insapore, costruita con il criterio della Grande Matrioska: sviti la bambolina con la faccia di Orlando e ci trovi quello che era il Pd, ma senza segni di riconoscimento; sviti la seconda bambolina e ci trovi, ben riparati, gli alfaniani. Uno dentro l’altro e tutti rigorosamente anonimi. Privi di identità, privi di storia, privi di personalità. “Mamma comanda e picciotto va e fa”, recitava Alberto Sordi in un film girato da Alberto Lattuada nel 1962.

 
Come è potuto succedere? Orlando comanda su Palermo dal 1983. Calcolando le pause obbligatorie imposte dalla legge dopo ogni due mandati, è stato sindaco per vent’anni. Non contento, l’11 giugno prossimo tenterà la quinta scalata e se la manovra – come tutto lascia prevedere – gli riuscirà, avrà segnato un record: fino al 2022 non ci sarà trippa per nessun altro gatto se non lui. Il Pd, che fino all’altro giorno predicava il rinnovamento e sproloquiava di rottamazione, potrà andare fiero del risultato. E lo stesso potrà dirsi degli alfaniani che, dopo avere contestato Orlando per cinque lunghi anni, si sono di colpo redenti e intruppati dietro il Pd: “Viva Orlando e Santa Rosalia”, gridano per le vie di Palermo con la segreta speranza di conquistare se non proprio una poltrona almeno uno strapuntino al tavolo della futura giunta.

 
Ma Orlando, come è suo costume, non promette nulla. Né ai reduci del Ncd né ai pellegrini del Pd. Gli ha già concesso la grazia di avvolgerli sotto il suo manto misericordioso e di proteggerli dalle incursioni grilline, che cosa vogliono di più? “Niente, non vogliono niente”, spiega il professore Carabillò. “Sono impauriti e tremebondi. Sanno di non potere più mobilitare gli elettori come nei tempi passati e sono terrorizzati dal flop elettorale. Fusi con Orlando nella coalizione Matrioska, potranno nascondere le perdite e parare i contraccolpi interni. Prendete il Pd. Come potrà non pagare un prezzo altissimo per avere consentito al governatore Rosario Crocetta di ingannare per quattro anni la Sicilia e i siciliani?”.

 
Il professore Carabillò torna alla metafora delle macerie tanto cara a Louis-Sébastien Mercier e, visto che c’è – da francesista ‘ntiso soprattutto a Ballarò – si spinge fino a Paul Valéry: “Questo Pd è ormai un partito sconosciuto a se stesso”. Inconnu à moi-même. Ma portare uno spicchio di Francia a Palermo non è facile. Qui il teatro delle evanescenze finisce per inghiottire ogni divergenza, per smussare ogni asprezza, per sigillare ogni lacerazione. Orlando che, per formazione culturale, non ha certo le rozzezze di un Crocetta, ha resistito per anni alla tentazione dell’inciucio ma alla fine ha ceduto anche lui alla logica del grande abbraccio. “Pura misericordia, una pax augustea”, insiste il professore Carabillò saltellando come uno scoiattolo dal francese al latino.

 
Come dargli torto? Questo sbracarsi del Pd palermitano davanti a Leoluca Orlando pur di fare diga contro i grillini ed esorcizzare la paura del risultato elettorale, rischia di diventare tuttavia un caso nazionale. Anzi, una pietra dello scandalo contro la quale potranno sbattere la testa non solo i responsabili regionali del partito ma anche i maggiorenti del Nazareno. Il fiato alle trombe lo ha dato già il ministro Andrea Orlando, candidato alle primarie per la segreteria nazionale e dunque in competizione sia con Matteo Renzi che con Michele Emiliano. Il caso di Palermo, ha redarguito, “è il segno che un partito prostrato non sa svolgere il ruolo di partito politico sul territorio. Se vincerò il congresso, garantisco che almeno nei capoluoghi di provincia in tutta Italia ci sarà il simbolo del Pd. Palermo è il segno di una crisi politica forte e chi non la vede non fa i conti con la realtà”.

 
Alle accuse di Andrea Orlando ha replicato, con puntuale irritazione, Carmelo Miceli, il segretario che ha stretto il patto con l’altro Orlando, Leoluca, il sindaco in corsa per la quinta investitura. Ha detto che la decisione di infilarsi nella Grande Matrioska è stata presa all’unanimità, quindi anche con il consenso del gruppo che sostiene in Sicilia la mozione del ministro della Giustizia, ed ha concluso con parole taglienti e affilate come coltelli: “Pretendo che Andrea Orlando si astenga dal farsi marchette congressuali attraverso critiche alla Federazione di Palermo. Critiche palesemente infondate e populiste come quelle del peggior Di Battista”. Pardieu, avrebbe detto il professore Aristide Carabillò, masticando amaro per i vicoli di Ballarò.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.