Rosy Bindi (foto LaPresse)

Reality antimafia show

Giuseppe Sottile

Scarpinato, la Juve, Crocetta e i nuovi grillismi. Il miracolo di Bindi che trasforma la fuffa in realtà

Da questo lato c’è lui, Massimo Giletti, il conduttore più ganzo che ci sia. Ogni domenica Massimuccio entra nella cripta dell’informazione Rai e con la tensione drammatica propria di un apostolo del populismo celebra la cerimonia della Purificazione. Raccoglie il male, abbandonato lì, nello studio dell’Arena, dai peccatori della politica e, con la voce vibrante di chi sta per compiere il miracolo, lo trasforma nel corpo e nel sangue di Beppe Grillo. Un pomeriggio indimenticabile e all’un tempo imprevedibile, quello che Rai Uno riserva alle nostre domeniche. Un aprés-midi d’un faune, verrebbe da dire. Perché se mai dovesse accorgersi, ad esempio, che la forza di quell’estremo peccato, che è il vitalizio, fosse capace di resistere al suo esorcismo, allora Massimo perderebbe la pazienza e si offrirebbe di colpo alla sceneggiata napoletana. Ricordate quando, indignato fino all’inverosimile, scagliò per terra il libro di Mario Capanna? L’ex leader del Sessantotto gli aveva appena detto che non intendeva rinunciare alla sua ricca pensione e Giletti non ci vide più dagli occhi. Dal lato opposto invece c’è lei, Rosy Bindi, la badessa più laica che ci sia. Ogni santo giorno segnato sul calendario la presidente Rosy entra nella cripta di San Macuto, riunisce la commissione parlamentare antimafia e inizia a celebrare – anche lei – il suo reality show.

 

Un tempo, l’Antimafia con la maiuscola cercava di squarciare i cieli scuri dei misteri e dei complotti ed era come farsi strada tra lastre di sangue perché la mafia c’era, eccome: era la mafia che seminava morte e terrore, che falciava le vite degli eroi, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sfidava lo Stato e voleva prendersi tutto, baracca e burattini. Oggi, per fortuna, quella mafia non c’è più. Lo Stato ha vinto e Totò Riina, con tutta la sua ributtante compagnia, è sepolto dagli ergastoli, murato vivo in un carcere di massima sicurezza. Ma Rosy, con i cinquanta parlamentari che compongono la storica commissione d’inchiesta, deve pure recitare la sua parte. Già, ma quale parte? Se guardi con distacco i dibattiti che accendono di questi tempi l’aula di San Macuto, a due passi da Montecitorio, la prima impressione è che la compagine guidata dalla Bindi sia diventata il crocevia delle più opache e inconcludenti risse strapaesane. E non deve essere proprio un caso che tra gli ospiti più gettonati del reality antimafioso ci sia quel Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, che a settimane alterne si ritrova alloggiato con tutti i conforti e con tutti i riguardi nella cripta di Giletti.

 

Ma l’Arena, proprio perché deve impupare pure lo spettacolino, ha sempre bisogno di avere come ospite quella macchietta della politica. Mentre la Bindi, anche per un riguardo all’istituzione che rappresenta, potrebbe farne comodamente a meno. Invece no: pigramente cede anche lei alla logica del teatrino e convoca ogni due o tre mesi Crocetta. Il quale, secondo un copione ormai collaudato, racconta lì le sue fandonie antimafia: parla di centinaia e centinaia di boss che lui ha fatto arrestare, di centinaia e centinaia di picciotti che ha fatto licenziare, di centinaia e centinaia di minacce subite da lui e dai fedelissimi che compongono il suo incontenibile cerchio magico. Ovviamente nessuno smentisce, perché nessuno è in grado di certificare quelle bugie. E Crocetta, che ha trasformato la Sicilia in un disastro ormai pronto per l’insediamento dei grillini, rifà il trucco alla propria immagine e torna in Sicilia a fare altri guasti e altri danni. Ma il metodo Crocetta, si sa, non conosce ostacoli. Facciamo un altro esempio. Un suo fedelissimo, che è poi l’esattore delle tasse siciliane, chiede alla Regione lo stanziamento di un centinaio di milioni per tenere in piedi l’azienda fallimentare della riscossione.

 

E per meglio far sentire la sua voce sostiene urbi et orbi che un misterioso contropotere, composto prevalentemente da consiglieri regionali che da anni evadono il fisco, sta facendo di tutto per affossare la macchina esattoriale. Il giochino dell’esattore, chiamiamolo così, poteva rimanere tranquillamente dentro i limacciosi confini di una polemica tutta siciliana. Ma il reality di palazzo San Macuto tiene sempre le luci accese e così anche la diatriba sulle tasse è approdata lì per essere dibattuta e inquisita. Ovviamente, con la colonna sonora di una Cavalleria rusticana e con l’inevitabile coda di repliche e controrepliche. Ma con un grado di irrilevanza talmente alto da far pensare che la commissione della Bindi vada cercando ogni giorno uno spunto per riempire la puntata. Le ultime performance stanno lì a dimostrarlo.

 

L’antimafia – la stessa alla quale fino a una decina di anni fa si concedeva la maiuscola – l’altro ieri ha ascoltato l’avvocato della Juventus per scandagliare il sospetto secondo il quale, dietro le tifoserie della scintillante squadra di calcio, ci sarebbero nientemeno che le ‘ndrine, con la loro violenza e i loro giochi loschi. L’avvocato non poteva che smentire, ma la Bindi non ha smesso di suonare l’allarme: “Ci preoccupa che venga negata l’esistenza del fenomeno”, ha sentenziato. Pagina chiusa, almeno così è sembrato. Qualche mese prima, la stessa commissione si era inchiodata sulla massoneria: aveva chiesto l’elenco integrale di tutti i grembiuloni sparsi per l’Italia e al rifiuto dei rispettivi Gran Maestri ha agitato con mano ferma la possibilità di affidare l’ingrato compito addirittura alle forze dell’ordine. E questo perché la commissione, se qualcuno ancora non lo sapesse, può anche sguainare all’occorrenza i poteri propri dell’autorità giudiziaria e procedere alle perquisizioni. Ma, come in tutti i reality show, uno spazio sostanzioso viene dedicato anche e soprattutto all’Oltremafia: a quel filone dell’antimafia, cioè, che da anni si occupa di tutto ciò che sovrasta la mafia: dai servizi deviati alle regie occulte, dal terzo livello criminale fino ai mandanti nascosti dentro le istituzioni.

 

Il rappresentante più autorevole di questa impegnativa linea di pensiero è Pietro Grasso, approdato al Pd e quindi alla presidenza del Senato dopo una lunga carriera di procuratore antimafia. “Si intuisce – ha detto recentemente in una intervista al Corriere – che Cosa nostra possa essere stato il braccio armato di altri interressi: di una strategia politica; di interessi di tipo economico legati agli appalti pubblici; o di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali”. Anche se la parola “entità” porta direttamente alla metafisica – e anche a quella boiata pazzesca che è il processo su una presunta trattativa tra i boss della mafia e alcuni pezzi dello Stato – il tema dell’Oltremafia non può che appassionare chiunque si trovi, per caso o per scelta, a frequentare i difficili ma esaltanti sentieri dell’antimafia. Figurarsi, dunque, l’attesa con cui San Macuto ha accolto due settimane fa il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, arrivato lì per una audizione centrata, manco a dirlo, sui misteriosissimi progetti di attentati che potrebbero scatenarsi da un giorno all’altro contro i magistrati: attentati orditi non solo dalla mafia ma “riconducibili a entità di carattere superiore”. Con l’Oltremafia di Scarpinato – uno specialista della materia: sua la lunga filiera di “sistemi criminali”, una maxinchiesta che dopo vari flop è sfociata poi nella fantomatica Trattativa – dobbiamo fermarci purtroppo a queste poche ma sentite parole. Rosy Bindi, infatti, ha creduto opportuno secretare i verbali dell’audizione con la conseguenza che difficilmente riusciremo a conoscere i dettagli delle trame nere che pendono sulla testa di chissà quali e chissà quanti servitori dello Stato.

 

L’unico elemento che fino a questo momento dà consistenza alla rappresentazione di Scarpinato – che al palazzo di Giustizia indicano come futuro candidato al vertice della procura nazionale antimafia – è il fatto che le sue dichiarazioni non possono essere divulgate. E questo basta a rafforzare il mistero e, con il mistero, quell’aura di imperscrutabilità che abitualmente accompagna la carriera di ogni alto funzionario chiamato a impugnare la spada del comando nella lotta a Cosa nostra. Ma la commissione, si dirà, deve ascoltare tutti. Non a caso ha sentito magistrati e investigatori, storici e giornalisti. Eppure, agli inizi del 2014, quando a San Macuto si è presentato il prefetto Giuseppe Caruso, più che mai intenzionato a raccontare di quali storture e di quali lordure era fatta la gestione dei beni confiscati alla mafia, Rosy Bindi ha avuto un momento di smarrimento. Il prefetto, di fatto, alzava la pietra che nascondeva il verminaio di Palermo e dava chiaramente a intendere quello che da lì a pochi mesi sarebbe venuto clamorosamente a galla: la complicità fra Silvana Saguto, il giudice a capo della sezione misure di prevenzione del tribunale, e una combriccola di commercialisti e avvocaticchi che, con la banalissima scusa di amministrare i patrimoni sotto sequestro, in realtà se li spartivano e li dissanguavano. Rosy Bindi, come si ricorderà, quel giorno reagì male. E, anziché prendersela con la cosca togata che stava depredando le imprese e gli immobili che erano appartenuti ai mafiosi, trattò malissimo il prefetto Caruso, colpevole a suo avviso, di sollevare dubbi sul meraviglioso e fatato mondo dell’antimafia giudiziaria. Uno scatto sopra le righe. Tale e quale a quello del capopopolo Giletti di fronte al peccaminoso vitalizio di Mario Capanna. 

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.