(foto LaPresse)

Lo spione privato, se scoperto, va in galera. Il pm che fabbrica dossier no

Giuseppe Sottile

Si conoscono fin troppo bene le conseguenze che un’inchiesta certamente avventata ha avuto sulla vita privata e sulla carriera politica di Federica Guidi

E’ un mare grande quello che circonda l’inchiesta su Giulio e Francesca Maria Occhionero, i fratelli hacker che da sei anni spiavano da Roma il fior fiore della politica, della finanza, della massoneria, del Vaticano. E’ un mare fatto di dubbi, di misteri e soprattutto di domande che difficilmente potranno avere una risposta entro tempi brevi. I diciottomila profili, messi insieme dai due pirati informatici, sono conservati e schermati in due server americani, uno nello Utah e l’altro in Minnesota, sui quali vigila l’Fbi. Per cominciare a vedere che cosa c’è dentro bisognerà aspettare intanto la risposta di Washington alle rogatorie; poi comincerà il lavoro, non facile, della decriptazione. Eppure una certezza c’è già. Ed è il fatto che i due cervelli di questa insolita “banda delle intercettazioni” sono finiti in galera. E ci sono finiti a fronte dei tanti, tantissimi autorevoli personaggi che pur facendo lo stesso mestiere – quello di fabbricare dossier – non hanno mai pagato pegno. Anzi. Sono stati applauditi e osannati come campioni della legalità; sono stati indicati nei talk-show e sui giornali come esempio di coraggio; e si sono lanciati in politica con fervore, magari per sostituire ai vertici delle istituzioni gli stessi esponenti che loro avevano magnificamente inquisito e sputtanato.

Il riferimento, va da sé, è a quei magistrati particolarmente abili non solo nell’individuare l’inchiesta mediaticamente più redditizia ma anche nel maneggiare intercettazioni, informative, rapporti riservati e tutto ciò che un giorno può risultare utile per mascariare un assessore, un sindaco, un ministro, il capo di un governo o, addirittura, il Capo dello Stato. Nessuno può ancora stabilire quali danni avrebbero provocato Giulio e Francesca Maria Occhionero alle vittime del loro dossieraggio o quali effetti devastanti avrebbero potuto avere le intercettazioni sul futuro di Matteo Renzi o di Mario Draghi o di Gianfranco Ravasi, cardinale di Santa Romana Chiesa. In compenso si conoscono fin troppo bene le conseguenze che un’inchiesta certamente avventata ha avuto sulla vita privata e sulla carriera politica di Federica Guidi, per la quale la procura di Roma ha chiesto, proprio l’altro ieri, l’archiviazione. Trascinata per i capelli in una inchiesta senza capo né coda avviata dalla procura di Potenza, Federica Guidi – che era ministro dello Sviluppo economico – è stata prima umiliata a colpi di intercettazioni: “… mi tratti peggio di una sguattera del Guatemala”, gridava al compagno; e poi costretta, per la vergogna, a dimettersi dal governo. Chi paga per tutti quegli sfregi provocati da una macchina giudiziaria chiaramente fuori controllo? Nessuno. “Ragioni di giustizia”, rispondono in coro magistrati inquirenti e giudicanti. E, da un punto di vista teorico, può anche essere vero: tra mille inchieste può capitare un errore, una sopravvalutazione, una visione controversa di un fatto.

Ma il guaio è che sono sempre più numerose le inchieste costruite ad hoc, senza prove e senza movente, ma al solo scopo di intervenire pesantemente nel gioco della politica o degli affari. E poiché tali inchieste non muovono né da un fatto né da un reato, ma quasi sempre dall’ambizione smodata di questo o quel magistrato, allora vengono gonfiate con mille e mille pagine di intercettazioni: il furbo pubblico ministero ipotizza, si fa per dire, una banalissima associazione a delinquere e ottiene dal Gip l’autorizzazione a mettere sotto controllo, per almeno tre mesi, il telefono, il pc e le email del malcapitato. Da quel momento, in nome del popolo italiano, comincia il dossieraggio. Molto simile a quello di Giulio e Francesca Maria Occhionero. Ma con una differenza: che lo spione privato, se scoperto, va in galera. Mentre il magistrato che origlia o spia dal buco della serratura non pagherà mai dazio. E’ la legge, bellezza.

Di più su questi argomenti:
  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.